Il 9 settembre 1976 moriva Mao Zedong. 40 anni dopo, la Cina è la prima economia al mondo
La Cina è diventata la prima economia del mondo. Oggi la Repubblica popolare conta per circa il 16 per cento nella torta mondiale della ricchezza, un punto in più degli Stati Uniti; si è comprata l’Africa, abbandonata dagli imperi coloniali europei; è presente nel capitale di tutte le principali imprese del mondo. Grazie alle dissennatezze della globalizzazione americana la Cina è diventata la "fabbrica del mondo", accumulando quantità enormi di quel che una volta si chiamava plusvalore… Ma questo autentico "impero" continua ad essere governato con la centralità del Partito comunista (espressione del nazionalismo) voluto da Mao, ripreso e rimodellato da Deng Xiaoping sui nuovi obiettivi di crescita economica.
La Cina è diventata la prima economia del mondo. Un risultato che forse a Mao Zedong, morto 40 anni fa il 9 settembre 1976, non sarebbe interessato più di tanto, se non per “dimostrare”, in chiave di propaganda, i successi della via cinese al comunismo.
Oggi la Repubblica popolare conta per circa il 16 per cento nella torta mondiale della ricchezza, un punto in più degli Stati Uniti; si è comprata l’Africa, abbandonata dagli imperi coloniali europei; è presente nel capitale di tutte le principali imprese del mondo. Grazie alle dissennatezze della globalizzazione americana la Cina è diventata la “fabbrica del mondo”, accumulando quantità enormi di quel che una volta si chiamava plusvalore… La Repubblica popolare è il maggior creditore degli Stati Uniti, e proprio i miliardi di titoli in bond americani sono l’àncora (o l’ostaggio) della stabilità globale. Insieme con gli altri Paesi emergenti ha avviato un sistema di scambi internazionali e una banca di finanziamento allo sviluppo alternativi a quelli dell’Occidente e delle organizzazioni sovranazionali.
All’interno i problemi, probabilmente, devono ancora cominciare, perché il miglioramento generalizzato delle condizioni di vita porta con sé nuove esigenze della popolazione; e per governare “da dentro” l’Impero di Mezzo il presidente Mao è ancora molto utile.
La base del consenso a Mao non si fondava tanto sull’adesione di massa all’ideologia comunista quanto piuttosto sul “riscatto” nazionalista che egli aveva saputo interpretare, proseguendo quel culto dell’imperatore–dio che tiene insieme la Cina da tremila anni. Mao sfruttò al meglio questi sentimenti diffusi: l’ultima dinastia imperiale aveva dovuto subire l’umiliazione della colonizzazione occidentale – il porto di Shanghai occupato da Francia e Inghilterra; Tianjin divenuta una specie di colonia con presenze militari di vari Paesi (persino l’Italia). E nel 1860 i “diavoli stranieri” avevano invaso Pechino e distrutto fra l’altro il Palazzo d’Estate… Prima ancora (1842) gli inglesi avevano obbligato l’Impero a cedere l’isola di Hong Kong, attraverso la quale avevano introdotto sul continente cinese l’oppio, con tutte le sue devastazioni… Negli anni Trenta del 20° secolo era toccato ai giapponesi occupare il paese, compiendovi nequizie analoghe a quelle delle SS naziste in Europa…
Con la Lunga Marcia (1934) e poi la proclamazione della Repubblica popolare (1949) Mao si pone in continuità con l’anima nazionale profonda del popolo; e ricostruisce il mito cinese, fondato non più sui mandarini imperiali né sui nazionalismi repubblicani di Sun Yatsen, ma sul fascino della “rivoluzione comunista permanente”, oltre che sul proprio culto personale del “grande timoniere”. Un fascino che, ai bei tempi, ha contagiato anche gli slogan dei sessantottini posticci dell’Europa occidentale (“Viva Marx, viva Lenin, viva Mao Tse Tung”, come si pronunciava allora).
Dal 1949 al 1976 la Cina di Mao conquista il seggio a Nazioni Unite e nel Consiglio di sicurezza; raggiunge (ed è forse il risultato fondamentale) l’autosufficienza alimentare; nel 1972 gli Stati Uniti inaugurano la “diplomazia del ping pong”, inserendo definitivamente la Cina nello scacchiere del “grande gioco” non più asiatico ma mondiale.
A 40 anni di distanza il profilo di Mao Zedong appare, prima di tutto, come quello di un grande maestro di retorica, un supremo manipolatore della comunicazione.
I misfatti di Hitler o Stalin continuano a essere guardati con orrore in Occidente, mentre i massacri compiuti dal grande timoniere, gli sconvolgimenti della rivoluzione culturale rimangono in secondo piano. Così come in secondo piano rimane l’occupazione armata del Tibet, ormai costretto a diventare a pieno titolo una provincia della Repubblica popolare, nell’indifferenza delle potenze occidentali e nel silenzio degli instancabili animatori dei “diritti umani”, che della Cina si occupano ben poco. Dopo Mao la sua “lezione” viene abbondantemente ripresa: le stragi di piazza Tian An Men (1989), le emigrazioni forzate di massa, la persecuzione religiosa continuano ad essere criticate e discusse in Occidente: ma avete mai sentito parlare di “sanzioni” internazionali alla Cina per violazione dei diritti umani o per ingerenza negli affari di altri Stati?
Per altro, sulla crescita della Repubblica popolare come Stato, hanno pesato molto di più le figure dei suoi “mandarini” comunisti, coloro che – senza mai rubare la scena al leader – hanno lavorato alla costruzione del Paese moderno: l’eterno primo ministro Zhou Enlai e Deng Xiaoping, compagno della prima ora tenuto lontano dal potere per anni (ma non eliminato), che dopo il 1976 ha impresso la svolta decisiva alla Repubblica popolare. Deng reggerà il Paese per quasi vent’anni (muore nel 1997), senza assumere nessuna carica pubblica di primo piano. L’unico titolo che si tenne fu quello di presidente del Circolo del Bridge…
L’invenzione di Deng Xiaoping sembra consistere proprio in questo: conservare l’icona del “grande timoniere”, garanzia della continuità e dell’orgoglio nazionale, e cambiare (quasi) tutto il resto.
Cancellando, in particolare, quell’utopia di rivoluzione permanente con cui Mao aveva combattuto per 40 anni la formazione di una classe dirigente, mandando in galera o nei campi di rieducazione i funzionari “borghesi”, e inventando un continuo “ricambio sociale” che aveva azzerato ogni possibilità di crescita dei cittadini; ma che in compenso garantiva, a lui e a quelle porzioni di Partito a lui più fedeli, la continuità e il controllo assoluto del potere.
Per compiere questo profondo ricambio Deng non ha avuto alcun bisogno di passare a sistemi “occidentali” di rappresentanza (democrazia parlamentare, diritti civili ecc.), in un Paese dove non esistevano né la borghesia né il ceto medio; e anzi quanto andava accadendo in Unione Sovietica con Gorbaciov lo convinse della necessità di mantenere intatta l’egemonia in politica interna e internazionale del Partito comunista. L’innovazione si concentrò così sull’economia e il miglioramento delle condizioni di vita, con tutti i vantaggi e le complicazioni che ne sono seguiti – per esempio oggi in Cina la corruzione dei funzionari pubblici rappresenta il problema dei problemi…
A 40 anni dalla morte l’icona di Mao è sempre più sbiadita: sulla piazza Tian An Men, santuario della nazione, Mao è sempre al suo posto, gli sposini continuano ad andare in pellegrinaggio al suo mausoleo. Ma sul selciato è ricomparsa la statua di Confucio, il vero dio della continuità cinese, che incarna una sapienza (e un senso dello Stato) ben più antica e stabile del turbine delle Guardie Rosse. I libretti dei “Pensieri di Mao” continuano a essere esposti con riverenza come oggetti di culto, ma già ad Hong Kong non li vuole più nessuno, neanche sulle bancarelle dei mercatini. E il faccione del presidente viene sempre stampato sulle banconote del “denaro del popolo” (renminbi), ma la politica economica che quella moneta rappresenta è esattamente il contrario della sua: parla di integrazione nel sistema economico e finanziario mondiale, di rivalutazione in rapporto al dollaro, di sviluppo delle Borse di Hong Kong – Shenzen e Shanghai. E il mitico popolo, che non è mai sceso in piazza contro il Partito, non ha esitato a erigere barricate quando in un giorno solo i titoli azionari trattati a Shanghai persero un quarto del loro valore, bruciando i risparmi accumulati dal popolo “comunista” cinese.