Dalla guerra del gas alla diplomazia degli arresti: l’inquieto esordio del 2025

Il 2025 di certo non si è aperto all’insegna della distensione, nel clima arroventato della politica internazionale

Dalla guerra del gas alla diplomazia degli arresti: l’inquieto esordio del 2025

Il 2025 di certo non si è aperto all’insegna della distensione, nel clima arroventato della politica internazionale.

Il 1° gennaio il gas ha cessato di fluire nel tubo residuo tra Russia ed Europa. Kiev ha negato il rinnovo del contratto di transito del gasdotto di cui Mosca, dopo l’Euromaidan, aveva programmato la dismissione nel 2019, poi rinviata. Paventando un’Ucraina in orbita atlantica, la Russia, aveva progettato l’aggiramento mediante i NordStream e il SouthStream (in seguito sostituito dal TurkStream).

Kiev rinuncia a 1 mld di dollari annui per il pedaggio, vantando un colpo durissimo al nemico. In realtà, la mossa si inserisce in una trama di ricatti incrociati che nel mezzo vede l’Europa perdere 15 mld di metri cubi annui di oro blu, il cui costo torna alla soglia di 50 euro/mwh. Solo in parte ne guadagnerà il Baltic Pipeline tra Norvegia e Polonia inaugurato il 27/09/2022 (il giorno dopo il sabotaggio del NordStream2), mentre a risultare direttamente penalizzati sono Paesi come Slovacchia (che infatti minaccia ritorsioni), Ungheria, Repubblica ceca, Austria e Moldavia (dove le forze di opposizione chiedono che si dichiari lo stato d’emergenza). Ripercussioni anche altrove, come in Italia, che  accedeva al flusso dal Tarvisio. Già a dicembre diverse imprese chiedevano alla Commissione Ue di sventare la chiusura, per non peggiorare il calo che da due anni interessa la produzione industriale.

Materialmente, la mossa ucraina fa leva sull’Europa, ma si espone al rischio di approfondire le spaccature intestine sul sostegno Ue alla guerra. I travagli energetici, peraltro, possono compromettere le transizione digitale dell’agenda di Bruxelles, già solo considerando il tasso energivoro dei data center. Né la Russia sembra propriamente fuori gioco. Il rimpiazzo del tubo appena chiuso rimanda al TurskStream: gas è pur sempre russo.  Oppure incrementerà l’import di gas liquefatto (gnl), molto più costo e con maggior impatto ambientale. Algeria e Azerbaigian potrebbero essere funzionali, ma entrambi, per sostenere il fabbisogno interno, comprano dalla Russia per rivendere a prezzi rincaricati. Senza contare che l’estrazione dai giacimenti algerini di El Assel avverrà con la partnership di Gazprom.

La situazione pare profittevole per il gnl Usa, rendendo superflui i dazi minacciati da Trump per aumentarne l’acquisto. Le boutade sull’annessione del Canada e l’acquisto della Groenlandia, con i loro sottosuoli colmi di risorse, tradiscono l’espansionismo nel mercato degli idrocarburi. Vero è che dal 2010, raggiunta l’autosufficienza energetica mediante il fracking (fratturazione idraulica volta a estrarre dalle rocce di scisto, iniettando nel suolo agenti chimici e radioattivi), gli Stati Uniti mirano a moltiplicare le vendite. Ma è pur vero che le società del settore statunitensi sono del tutto private, per cui, per mantenere il livello dei prezzi, potrebbero limitare le estrazioni.

D’altro canto, l’avvio d’anno ha confermato che le sfide di Washington non sono tutte estroflesse. Il profilo degli attentatori di Las Vegas e New Orleans ribadisce gli allarmi sul malessere interno, penetrato persino nelle forze armate. Le linee di faglia sempre più radicalizzate mostrano una crisi di identità che alimenta un odio corrosivo anche verso il nemico interno.

Il  segnale dovrebbe essere letto con previdente attenzione anche nel resto delle società occidentali. La vicenda di Cecilia Sala è un esempio, nell’ambito dell’odierna “diplomazia degli arresti”. Chiaramente attiene alla ritorsione di Teheran per il fermo di Mohammad Abedini, cittadino svizzero-iraniano arrestato dalla nostra autorità giudiziaria su ingiunzione di Washington, in applicazione di leggi statunitensi neppure violate sul territorio italiano (trattasi delle sanzioni unilaterali degli Usa contro l’Iran). Palese è la cornice delle vicende mediorientali, ove l’Iran si avverte sotto tiro di Usa e Israele, con l’incognita turca. Ma a casa nostra il dibattito mediatico ha sfoggiato polarizzazioni ciniche e “fuori fuoco”. Da un lato il recupero di articoli e post in cui la Sala, anni addietro, si schierava contro gli sforzi della Farnesina per sottrarre alla giustizia indiana i due marò, ovvero gli stigmi censori contro le quinte colonne critiche dell’atlantismo. Dall’altro, gli avvitamenti interpretativi sulla barbarie dei regimi non occidentali che soffocano la libertà d’informazione, dimenticando Assange, le carcerazioni di penne scomode sugli odierni teatri di guerra o giornalisti uccisi a Gaza.

Quali che siano i travagli che aprono le quinte del 2025, auspichiamo almeno negli opinion makers quel minimo di cautela – oltre che di onestà – intellettuale necessaria a non inquinare il senso sociale in quest’agitata epoca di transizione.

Giuseppe Casale*

*Scienze della Pace – Pontificia Università Lateranense

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Fonte: Sir