Da Kiev a Damasco: tra pressioni, incertezze e occasioni mancate
Gli sviluppi sul teatro ucraino vanno chiarendo gli effettivi atteggiamenti dei diversi attori coinvolti
Gli sviluppi sul teatro ucraino vanno chiarendo gli effettivi atteggiamenti dei diversi attori coinvolti. Dopo le candide esternazioni dell’ex premier britannico Johnson, per il quale l’Occidente si sta giocando la credibilità come egemone mondiale, dice molto la censura che Rutte, segretario Nato, ha rivolto a quanti suggeriscono a Kiev la direzione dei negoziati. Il che smentisce la narrazione di un’Ucraina del tutto sovrana nel decidere se e come intraprendere trattative di pace. D’altronde, l’oltranzismo di Rutte contrasta pure con la bicefalia degli Usa. Da un lato si nota l’attivismo di Trump nel cercare una formula per chiudere il conflitto subito dopo il suo insediamento o, quanto meno, per sfilare Washington e lasciare la scena alle cancellerie europee realmente disposte a farsi carico del peso ucraino. Dall’altro vediamo gli apparati fidelizzati all’amministrazione uscente cercare di blindare lo schema bellico, erodendo la possibilità del Tycoon di imporre un recesso improvviso.
Nel mezzo c’è Zelensky, che teme le mosse di Trump cercando nondimeno di resistere alla Casa Bianca, che ora detta di abbassare il reclutamento ai diciottenni. La misura non capovolgerebbe gli esiti della guerra, considerando l’incidenza demografica, i dati su renitenza e diserzioni nonché i numeri della Unhcr, che vedono la Russia come principale destinazione migratoria. Soprattutto, Zelensky si preoccupa della caduta del consenso interno. In quanto presidente “scaduto” a maggio, personalmente rischia molto laddove venisse scaricato da Trump, che potrebbe considerarlo un ostacolo ai negoziati. Il Cremlino infatti si dice disposto a siglare accordi solo con il presidente legittimo dell’Ucraina, rinnovato con debite elezioni, per ripartire dalla bozza di Istanbul del marzo 2022 aggiornata con i risultati sul campo. Per addivenire a soluzioni permanenti (su tutte la Nato alla larga dall’Ucraina) anziché a tregue ricusabili in qualsiasi momento, giacché sottoscritte da un presidente senza più mandato che, per giunta, si è vietato per decreto di firmare trattati con Putin.
Ora Zelensky confessa l’impossibilità di rinconquistare i territori e chiede all’Occidente il sostegno utile a trattare in “posizione di forza”. Di certo essa non può consistere nella minaccia di una guerra scompostamente ibrida, del tipo prefigurato dalle azioni terroristiche, condotte direttamente o mediante la manovalza dell’immigrazione uzbeka in Russia, reclutata attraverso i canali del radicalismo islamista, come nel caso del Crocus City Hall e, più di recente, del generale Kirillov, capo dei servizi di protezione civile in caso di attacchi chimico-batteriologici e nucleari, 4 anni fa ospitati anche in Italia durante l’emergenza pandemica per la profilassi delle rsa.
Una leva più profittevole per esercitare pressioni su Mosca era sembrato, sulle prime, il rovesciamento il rovesciamento di al-Assad, storico alleato della Russia. Tuttavia il collasso “controllato” del regime sta rivelando dinamiche inattese. Osservata l’incapacità dell’esercito siriano di resistere, strangolato, assieme alla popolazione, dalle sanzioni unilaterali occidentali, il Cremlino pare avere concordato un cedimento incruento, in cambio di garanzie dalla Turchia, sponsor dei “ribelli” entrati a Damasco. Al momento non sappiamo se esse riguardano la conservazione in mano russa del porto di Tartus e dell’aerobase di Khmeimim ovvero la smobilitazione pacifica delle stesse. Ma dice molto il movimento attorno ai presìdi che la Russia ha ottenuto dal generale Haftar in Libia, idonei a sostituire quelli siriani per le proiezioni geostrastrategiche nel Mediterraneo e in Africa.
Con una mossa da judoka, togliendo il freno alla caduta del regime siriano, il Cremlino può avere colto di sorpresa anche gli Usa, che si erano uniti al supporto degli insorti dalle basi d’occupazione nell’est siriano. L’esito potrebbe tradursi in un ennesimo boomerang gestionale per Washington. La compagine governativa che si accinge a subentrare ala Repubblica baathista di Assad, laica, intertribale e multiconfessionale, sarà in grado di amministrare gli equilibri interni? Oppure gli ex tagliagole al seguito di al-Jolani riprenderanno il filo dai loro trascorsi nell’Isis? Inoltre le mire turche non tolleranno che la regione del Rojava resti sotto il controllo dei curdi appoggiati dagli Usa. Anche perché essa ospita il grosso dei pozzi petroliferi siriani, sinora gestiti a beneficio degli approvvigionamenti israeliani. Inoltre Ankara non vorrà dipendere dal veto dei curdi al passaggio del gasdotto turco-qatariota, che già Assad (e mal gliene incolse) osteggiò nel 2009, congelando sino a oggi quella pipeline progettata per portare in Europa il gas conservato nell’immenso giacimento del Golfo Persico condiviso territorialmente tra Qatar (North Dome) e Iran (South Pars).
A complicare il quadro le aspirazioni di Israele, che rivendica meriti nella caduta di Damasco e, continuando a bombardare i depositi di armi, consolida l’occupazione illegale del Golan siriano e si insedia sulle cime dell’Hermon. Interrotta la continuità geografica dell’Asse della Resistenza tra Iran e Libano, Tel Aviv vede realizzarsi il Piano Yinon teorizzato negli anni ’80 dall’omonimo consigliere militare di Netahyahu: balcanizzare la Siria come il Libano, sino a polverizzare le statualità ostili della regione.
Lo scoperchiamento del vaso di Pandora ha le carte in regola per replicare le vicende dell’Iraq e della Libia. Kiev, che pure mesi fa vantava la fornitura di droni all’Hts di al-Jolani, non ne ricaverà granché. Soprattutto, le ricadute sulla catastrofe umanitaria dei profughi siriani non promettono nulla di buono, mentre i cristiani del Paese temono per la loro incolumità, dubitando della conversione sulla “via di Damasco” dei miliziani che ieri sventolavano le bandiere nere del Califfato islamico. Almeno su questo non ci si distragga, ignorando le lezioni impartite dalla storia: neanche lontana, ma giusto dell’altroieri.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università Lateranense