Papa Francesco e la comunicazione. Fabris: “Uno stile diretto capace di gettare ponti”
“Il Pontefice è stato capace di comunicare non solo con espressioni evocative di immagini e quindi comprensibili a tutti ma anche con i gesti e il silenzio”, dice al Sir il professore di Filosofia morale e di Etica della Comunicazione all’Università di Pisa

La guerra mondiale a pezzi, i pastori con l’odore delle pecore, Chiesa in uscita, globalizzazione dell’indifferenza, la cultura dello scarto, la Chiesa ospedale da campo, cristiani da salotto: sono alcune delle espressioni di Papa Francesco, entrate nell’immaginario collettivo. Un Papa che con le parole, rafforzate dai gesti, e con il suo stile ha rivoluzionato la comunicazione. Ne parliamo con Adriano Fabris, professore di Filosofia morale e di Etica della Comunicazione all’Università di Pisa.
Professore, quale è stata la rivoluzione che ha compiuto Francesco nella comunicazione?
Distinguerei tre aspetti sul modo in cui Papa Francesco si è relazionato al mondo della comunicazione. Il primo aspetto è come Papa Francesco stesso comunicava. Il secondo aspetto collegato a questo è come gestiva i media. Il terzo aspetto è come ha riflettuto nei suoi documenti sui media e sugli sviluppi comunicativi.
Partiamo dal primo aspetto…
Papa Francesco aveva una comunicazione estremamente diretta.
Possiamo subito dire, nel bene e nel male. Perché a volte proprio questo carattere diretto della sua comunicazione gli ha creato qualche grattacapo.Era in ogni caso un grandissimo vantaggio, perché questa comunicazione diretta riusciva a creare subito un collegamento, a gettare un ponte con le persone.Diretta vuol dire una comunicazione che trasmetteva la parresia, trasmetteva il fatto che quello che uno diceva lo pensava e quello che uno pensava lo diceva. Questa veridicità era chiaramente un elemento attrattivo, nel senso che creava immediatamente fiducia, dava credibilità. Questo stile comunicativo di Papa Francesco era lo stile di chi rendeva testimonianza alla verità e lo faceva in maniera diretta, poi con il suo carattere, con il suo stile, quindi con le parole semplici che tutti potevano comprendere. Importanti anche i silenzi. Perché si comunica anche con il silenzio e Papa Francesco ha comunicato in molti casi proprio con la concentrazione, la riflessione, il silenzio, la sua presenza, il prendere sopra di sé, silenziosamente, il dolore suo personale e il dolore del mondo.
Sempre in questo ambito di comunicazione diretta, c’è la comunicazione attraverso i gesti. C’è tutta una dimensione di non verbale che Papa Francesco ha praticato nella sua comunicazione, che bucava e che coinvolgeva.
Abbiamo in mente tanti esempi, a me quello che ha colpito recentissimamente è proprio il fatto che nonostante la fatica, la stanchezza, le raccomandazioni dei medici, a Pasqua il Papa ha fatto il giro di piazza San Pietro, ha preso i bambini, li ha baciati, li ha benedetti. Sono gesti che parlano e che danno il segno di una fede, di un impegno e di una carità fino in fondo.
Per il secondo aspetto cosa ci può dire?
Non si può essere ingenui, oggi: quando si comunica, lo sappiamo benissimo, si rischia di essere stritolati dai meccanismi della comunicazione. Tanto più se non si ha padronanza del mezzo.
Ebbene, Papa Francesco è riuscito a far passare il messaggio cristiano attraverso il mezzo, senza farsi assorbire dal mezzo.
Pensiamo ad esempio all’utilizzo del mezzo televisivo. Non solo ha partecipato alle trasmissioni di A Sua immagine, ma ci è andato direttamente. Ha usato anche in maniera ovviamente consapevole, forte la parola. E l’ha usata tanto più nell’ultimo periodo, proprio quando non aveva voce per poter dire le cose più essenziali. La stessa padronanza del mezzo l’ha dimostrata nell’utilizzo delle tecnologie della comunicazione. Anche se era certamente un Papa social, anche se questo era un po’ fuori rispetto al suo orizzonte però è stato presente.
Sul terzo aspetto, Papa Francesco come ha riflettuto sulla comunicazione?
Qui abbiamo tutta la serie dei Messaggi per le Giornate mondiale delle comunicazioni sociali. Inizialmente si concentrano sulla comunicazione giornalistica, soprattutto sulla necessità di una comunicazione veritiera, una comunicazione credibile, una comunicazione affidabile, una comunicazione che non abbia paura di dire la verità. Poi, progressivamente è diventata sempre di più una riflessione sulle nuove tecnologie nell’ambito della comunicazione, dove questi temi della verità, della credibilità, della testimonianza sono stati applicati in maniera veramente molto utile e intelligente all’ambito e dei social, soprattutto, e dell’intelligenza artificiale. Questi sono i tre aspetti a mio avviso importanti per cui Papa Francesco ha effettivamente dato un corso agli sviluppi comunicativi con indicazioni molto precise, dimostrando consapevolezza rispetto a quello che sta avvenendo oggi.
Ha portato una rivoluzione comunicativa con il suo stile?
Questo sicuramente. Una rivoluzione che però porta con sé anche la consapevolezza che non si può buttare via quanto è stato acquisito e sperimentato nel passato: voglio dire la tradizione cristiana è una tradizione che fa uso da sempre delle modalità comunicative per l’annuncio. Tutto quanto è stato acquisito di buono all’interno di questa tradizione non può essere abbandonato: la capacità di una parola che getta ponti, la capacità di uno scritto che rimane e che dice cose che devono restare, la capacità di gestire le immagini, anche di utilizzare i social. La rivoluzione di Papa Francesco è una rivoluzione vera, non è la rivoluzione delle tecnologie che cercano sempre un aspetto nuovo, una novità commercializzabile che sostituisca l’ambito precedente.
C’è una rivoluzione che tiene conto di questi sviluppi e che cerca di renderli integrati e integrabili con quanto di buono la tradizione comunicativa ci ha tramandato.
L’uso di tante espressioni che ricollegano a un’immagine rendono anche più semplice capire il concetto da parte di tutti?
Sicuramente. È un altro degli aspetti della sua comunicazione diretta. Espressioni come “pastori con l’odore delle pecore” colpiscono l’’immaginazione, rimangono nella mente e penetrano profondamente nella memoria e nella coscienza. Da questo punto di vista, la capacità comunicativa di Papa Francesco era decisamente competente.
Quello che vorrei sottolineare è la sua capacità di produrre nuovamente immagini significative che potessero essere condivise da tutti.
Noi veniamo da un periodo in cui sembrava avessimo paura di utilizzare le immagini soprattutto in relazione alle tematiche religiose, si parlava di demitizzazione. Bisognava arrivare all’essenza, togliere l’involucro mitico, immaginifico, rispetto a quella che è la verità dell’annuncio. Una impostazione del genere è andata poi assolutamente in controtendenza ed è stata sconfitta da questo abbondare di immagini che troviamo nel nostro contesto comunicativo odierno e quindi Papa Francesco si è reso conto che era necessaria una vera e propria “rimitizzazione”. Che le immagini non erano qualche cosa di culturalmente collocato e comprensibile solo in ambiti circoscritti, ma che parlavano a tutti gli esseri umani perché erano immagini dell’umanità, d’altra parte, nei Vangeli Gesù quante immagini usa che non sono circoscritte all’ambito del suo tempo e alla cultura della sua epoca? Su questa linea si è mosso anche Papa Francesco, rimitizzando il discorso, rilanciando immagini che potevano davvero parlare a tutti: a persone di varie culture e tradizioni che in ogni caso riuscivano a capirle.
Ha usato anche parole spagnole italianizzate.
Sì, certo,
Francesco sosteneva che per inculturare la fede bisogna essere in grado anche di trasmetterla in dialetto.
Quello che importa, e questo è un elemento del suo approccio e del suo stile comunicativo anche per quanto riguarda l’annuncio cristiano, è che non bisognava porsi in una lingua universale, asettica, globale o globalizzata, perché poi questa lingua universale, asettica, globale, globalizzata nessuno la riconosceva come propria, sembrava qualche cosa di astratto e di calato dall’alto. La testimonianza parte sempre da chi è inserito in un contesto, ha i piedi per terra, nel fango del luogo in cui si trova a operare e quindi parla anche la lingua di quel luogo e questa lingua viene compresa, è il miracolo della Pentecoste. Viene compresa da tutti e tutti riconoscono che questa lingua, pur radicata nella particolarità dell’esperienza di chi la parla, è una lingua vera, perché è la lingua in cui si esprime credibilmente chi sta parlando.