L’ombra cinese sulle isole del Pacifico
Il gigante asiatico rispolvera l’imperialismo, depositando da un anno a questa parte tonnellate su tonnellate di sabbia in un atollo vicino alle isole Spratly. L’obiettivo sarebbe costruire una pista da decollo lunga tre chilometri, in una posizione strategica per controllare l'intera area sud-orientale.
In principio fu il petrolio. Poi il gas, quindi la possibilità di pescare in zone ancora ricche di pesce
Ma a spingere la Cina a costruire un’isola artificiale dove prima c’erano solo pochi scogli è soprattutto la “volontà di potenza”.
Il gigante asiatico rispolvera l’imperialismo, depositando da un anno a questa parte tonnellate su tonnellate di sabbia in un atollo vicino alle isole Spratly, rivendicate anche da Filippine, Vietnam, Brunei, Taiwan e Malaysia.
«Si possono risolvere le cose con la diplomazia, solo perché Vietnam e Filippine sono più piccoli non vuol dire che la Cina possa farli da parte a sgomitate» ha ammonito Barak Obama pochi giorni fa.
Ma il suggerimento del presidente americano non sembra essere stato colto da Pechino, che nella nuova isola sta realizzando una pista d’atterraggio: di fatto una portaerei.
Fino a qualche decennio fa disabitate, le Spratly hanno tanti nomi diversi quanti sono gli stati che ne proclamano la sovranità
Tutti (compreso il Brunei, con un atollo deserto) possiedono una o più frazioni dell’arcipelago, che dista circa un migliaio di chilometri dalla grande isola cinese meridionale (sostanzialmente una regione a sé) Hainan.
Il petrolio qui è stato scoperto a metà anni Sessanta: il giacimento sotterraneo è ancora sfruttato solo in piccola parte, ma si stima paragonabile a quello del Kuwait.
L’area è inoltre ricchissima di pesce, in un’epoca in cui le riserve diminuiscono di anno in anno, e, si stima, di gas naturale.
Inoltre, per le Spratly passa una percentuale significativa delle navi che approdano nei vari porti commerciali di tutta l’Asia del sud.
La Cina ha messo gli occhi sull’area da tempo: ne rivendica circa l’80 per cento (è frequentata da pescatori cinesi da 2.200 anni), e non molti anni fa, nel 1988, uno scontro armato fra navi cinesi e vietnamite per il possesso di un’isoletta ha portato a una settantina di morti vietnamiti.
Le tensioni sembravano in parte risolte con un “codice di condotta” collettivo firmato nel 2002, ma il gigante cinese da tre anni ha ripreso con le attenzioni all’area. Sempre più concrete, e con una strategia del tutto nuova nella storia umana: quella delle “isole artificiali”.
Lo scoglio che la Cina sta attrezzando a base militare è il Fiery cross reef
Pechino ha iniziato ad allargarlo all’inizio dell’anno scorso, dragando sabbia e scaricandola su spazi generalmente sott’acqua con l’alta marea. L’obiettivo sarebbe costruire una pista da decollo lunga tre chilometri.
È la prima dell’arcipelago: l’investimento, secondo la stampa cinese, sarà di almeno cinque miliardi di dollari in dieci anni.
È ben comprensibile allora la preoccupazione di Barack Obama e degli Usa che da tempo ammoniscono il colosso asiatico a creare un proprio spazio aereo militare in quest’area: «Pechino mostra i muscoli per costringere gli altri paesi in posizioni subordinate», ha commentato, stizzito, il presidente qualche giorno fa.
L’ambasciatore cinese negli Usa, Cui Tiankai, ha risposto dando rassicurazioni: «La pista servirà solo per garantire rifornimento e manutenzione alle navi di passaggio». Ma la spiegazione non ha convinto affatto gli americani, “armati” del resto di prove che dimostrerebbero che l’operazione non è isolata: i servizi americani hanno reso pubbliche foto satellitari che mostrano la costruzione di altre isole artificiali sulla scogliera (cinese) di Subi e che, secondo la marina statunitense, permetteranno ai cinesi di installare se lo vorranno sistemi radar e missilistici in mezzo al mar Cinese Meridionale.
A un migliaio di chilometri dalla loro terraferma, con tutti i vantaggi militari conseguenti.