La guerra in Ucraina oltre l’Ucraina. Nota geopolitica
Anche se l’Ucraina non è libera di aderire alla Nato, l’Europa non ha facoltà di autodeterminazione strategica.
Sebbene risulti difficile distogliere l’attenzione dal dramma che si consuma in Ucraina, alcuni fatti dei giorni scorsi inducono ad allargare lo sguardo alla complessità dello scenario.
Il 12 marzo una dozzina di missili Fateh-110 iraniani hanno colpito l’area del consolato Usa a Erbil, nel Kurdistan iracheno. I pasdaran hanno rivendicato i lanci, dicendoli indirizzati a una base del Mossad. Potrebbe trattarsi della ritorsione per l’assassinio di due consiglieri iraniani di Assad, ma il silenzio di Washington suggerisce un collegamento con il negoziato sul nucleare di Teheran, che Mosca minaccia di far saltare.
Il 18 marzo in Norvegia un V-22 con 4 marines a bordo è precipitato durante l’esercitazione “Cold Response” programmata da tempo dalla Nato nella regione artica. Assieme alle poderose manovre tenute dall’Alleanza in territorio ucraino nel 2021, ciò induce a riflettere una volta di più sulla tensione competitiva che, non da febbraio, percorre la mappa dei rapporti tra Mosca e l’Occidente.
A dispetto del raggio d’azione atlantico, la realtà si è incaricata da oltre due decenni di sconfessare l’utopia unipolare accarezzata con il crollo sovietico. E ha mostrato una rivalità dislocata su diverse aree, ove si ambienta la sfida all’egemonia Usa rappresentata da inedite convergenze che ambiscono a costituire un alter ego attrattivo, con tanto di organizzazioni internazionali speculari a quelle capitanate dall’hard power militare ed economico di Washington.
In tale panorama la Russia, quantunque ora concentrata sui suoi immediati confini securitari, resta un protagonista di sicuro rilievo. Secondo le norme di ingaggio ispirate dal “dilemma della sicurezza”, nell’anarchia dell’arena internazionale, notoriamente incerta sugli sviluppi intenzionali, il potenziamento del rivale spinge a recuperare lo svantaggio, giacché ognuno interpreta le proprie mosse come difensive e quelle altrui come minacce. Nella circolarità viziata della dinamica, il Cremlino si è così compromesso in una postura che gli sta costando alquanto. Eppure, nonostante la tentazione di approfittarne per propiziare la caduta del regime, date le dipendenze incrociate, gli attori primari intuiscono i gravi rischi dello scoperchiamento del “vaso di Pandora” nell’area egemonica di Mosca, come pure della destabilizzazione di una superpotenza nucleare fuori controllo.
Probabilmente ne è consapevole Biden, che nel vertice del 18 marzo ha chiesto a Xi Jinping di sganciarsi da Putin per indurlo ormai a desistere, curando che la vicenda non si risolva in un bipolarismo senza residui tra gli Usa e il polo sino-russo. Ma non al punto di cooptare Pechino in una reale mediazione, ciò equivalendo a inaugurarne l’ingerenza in ambiti off limits.
Dal canto suo, pur contrariata dal decisionismo putiniano e attenta a non farsi contagiare dai suoi effetti, la Cina ha vari motivi di cercare profitto da una Russia economicamente vincolata (e subalterna) ma sufficientemente salda per impegnare ancora l’Occidente in Medioriente e in Africa, per presidiare le rotte centroasiatiche della “Nuova Via della Seta” e per coprire il fianco di nordovest dal contatto con gli avamposti dell’anglosfera. Infine, anche Pechino ha da temere le ramificatissime ripercussioni della guerra sui mercati globali, ma ha già iniziato a cogliere le opportunità, con lo yuan prossimo a essere adottato come riserva valutaria russa e acquistando il 25% del petrolio saudita mediante la medesima divisa in luogo del dollaro, oggi meno affidabile.
Non serve dire molto degli Stati europei, data l’asimmetria dei contraccolpi che si profilano a loro danno. Anche perché se l’Ucraina non è libera di aderire alla Nato, l’Europa non ha facoltà di autodeterminazione strategica, a ciò non bastando l’eccezionale piano di riarmo annunciato da Berlino che – non senza i malumori francesi – porterebbe la Germania a essere il 3° Paese al mondo per spese militari.
L’isolamento russo costituirà una condizione difficilmente reversibile, tuttavia sulla sua misura peserà il protrarsi del conflitto. Che Mosca e Kiev hanno urgenza di arrestare. I passi in avanti sono testimoniati dalle bozze per il cessate il fuoco trapelate nei giorni scorsi. Per molti versi, esse si avvicinano agli accordi di Minsk, rafforzati dalla richiesta russa dei mesi scorsi, ormai intesa non tanto a precludere l’ingresso (formale) dell’Ucraina nella Nato, quanto a interrompere l’ingresso (fattuale) della Nato in Ucraina. Il che si sostanzierebbe in una neutralità che impegna a non ospitare forniture militari, basi, installazioni e laboratori stranieri. Per converso, si espliciterebbe il nulla osta di Mosca a un’eventuale integrazione di Kiev nella Ue (non così scontata, a dispetto delle dichiarazioni di ospitalità, stanti le credenziali politiche ed economiche presentate dal candidato).
I nodi sembrano però fissarsi sui ritagli territoriali legati all’annessione della Crimea e dell’autonomia del Donbass che, dalla prospettiva russa, configura piuttosto l’indipendenza. Osterebbe specialmente la previsione dell’area di Mariupol come corridoio di continuità tra Donbass e Sebastopoli, limitando fortemente lo sbocco marittimo ucraino mediante una sorta di ripristino ridotto della regione della Nuova Russia istituita in epoca zarista. A fronte della pressione esercitata sulla capitale ucraina senza sfondare, ciò spiegherebbe il drammatico intensificarsi delle attività degli obici su Mariupol, la cui presa potrebbe consentire alla Russia di accelerare la chiusura dei negoziati da una posizione migliore, evitando di escalare via aerea e di sfibrare nel frattempo le forze di terra in insostenibili guerriglie urbane.
Il tutto in considerazione del fattore tempo, così disumanamente estraneo allo strazio inferto da simili calcoli.
Giuseppe Casale*
*Pontificia Universitas Lateranensis