Gli “altri” alla tavola delle nostre comunità
In questi mesi, come non mai, è messa alla prova l’opportunità di vivere il vangelo in Europa, anzi la possibilità di un futuro per il cristianesimo stesso. La paura è quella di una “invasione islamica” nell’Europa cristiana. Ma si può davvero difendere un occidente cristiano escludendo le richieste del vangelo? O non sarà destinato a finire per il fatto stesso che si sta cercando di salvarlo con mezzi non cristiani? Una cosa è certa: a seconda del modo in cui si posiziona, la chiesa decide anche il suo futuro.
In questi mesi, come non mai, è messa alla prova l’opportunità di vivere il vangelo in Europa, anzi la possibilità di un futuro per il cristianesimo stesso.
All’appello di papa Francesco ad aprire porte e spazi all’accoglienza, diverse sono state le reazioni ecclesiali. Da quelle propositive della Conferenza episcopale italiana a quelle preoccupate se non addirittura contrarie di alcuni vescovi dell’Europa orientale, per non parlare di quelle politiche. La paura è quella di una “invasione islamica” nell’Europa cristiana. Così si pensa di “difendere” il cristianesimo con atteggiamenti che gli sono estranei: innalzamento delle barriere, chiusura delle frontiere, rimpatri.
Ma si può davvero difendere un occidente cristiano escludendo le richieste del vangelo?
O non sarà destinato a finire per il fatto stesso che si sta cercando di salvarlo con mezzi non cristiani? Una cosa è certa: a seconda del modo in cui si posiziona, la chiesa decide anche il suo futuro.
È la scelta tra quello che può essere espresso come ottimismo salvifico inclusivo oppure come pessimismo salvifico esclusivo.
La predicazione di Gesù ha annunciato il regno di Dio impregnato di giustizia, pace e gioia nello Spirito santo (cf. Rm 14,17). Un regno che non ha confini e che in Lui ricapitola ogni cosa e ogni persona. Attraverso la risurrezione diventa un “Cristo cosmico”, per dirla con la voce ancora flebile della teologia delle religioni.
La prospettiva non è di facile composizione in quanto deve tenere insieme la pretesa del cristianesimo sulla centralità del ruolo salvifico di Cristo e il valore delle altre religioni che comunque «riflettono un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (Nostra aetate 2).
All’interno delle sfide epocali in atto, la chiesa è chiamata a rendere operante un ottimismo salvifico sulla scia del messaggio di Gesù sull’affermazione del regno di Dio.
La prospettiva inclusiva si fida di Dio che, con l’opera dello Spirito santo, sparge briciole d’amore nella vita di ogni essere umano. Questa immagine di universalità può ispirare l’azione attuale della chiesa. Non si può coltivare e difendere il proprio orticello. Ne va della proposta del vangelo nel suo nucleo più profondo.
L’umanità, nonostante tutte le differenze di culture, religioni e persone, va vista come una unità poiché c’è un solo Dio che ama una molteplicità di figli.
Ogni persona è nostro fratello e sorella nella prospettiva del regno. Anche Aylan, il bambino morto sulla spiaggia di Kos, è uno di noi. Così come i tanti rifugiati, se letto teologicamente, “siamo noi”.
Questa consapevolezza sta diventando familiare a tante comunità parrocchiali ormai in prima linea nell’accoglienza. Lo dimostrano i dati del report sulle povertà e sulle risorse presentato da Caritas Padova il 30 aprile scorso. Va tuttavia modificato il pensiero che spesso sta a monte dell’aiuto che si offre ai bisognosi.
Non si tratta di vedere la povertà, ma la persona povera. Non si tratta solamente di risolvere un problema, ma di far crescere. Non è questione di “dare”, ma di coinvolgere.
Con una borsa della spesa posso alleviare la fame per qualche giorno, ma se accompagnata da una stretta di mano e un sorriso posso stabilire una relazione. Solo nella vicinanza fisica il volto dell’altro non mi è più estraneo.
Le immagini televisive mi raccontano il problema, ma l’altro rimane lontano. Solo quando la persona mi sta davanti diventa mio fratello e mia sorella. Ma c’è di più.
Parrocchie e associazioni possono rendere queste persone capaci di futuro nel momento in cui le fanno sedere alla “tavola della comunità”.
Il primo passo è coinvolgerle nei momenti comunitari, anche informali, specialmente se si tratta di persone appartenenti ad altre culture e religioni. È la fraternità sperimentata che allarga le prospettive e permette di camminare insieme. E che dire delle realtà partecipative: quanti consigli pastorali hanno al loro interno, per esempio, una persona di colore? Quanti degli stranieri che vivono nel territorio della parrocchia sono rappresentati? Quanti proclamano la Parola durante l’eucaristia (magari nella loro lingua)?
Gli esempi possono essere molti per sottolineare l’importanza di coinvolgere e del rendere partecipi.
Quale sarà il futuro del cristianesimo in Europa?
La risposta è solo nella universalità del suo darsi, così come Cristo ha donato se stesso per ogni uomo.