"La Brexit? è solo la punta dell'iceberg del malessere europeo"
«La Brexit è solo la punta dell’iceberg dei problemi dell’Unione Europea». Delinea così la situazione attuale del Vecchio continente Antonio Varsori, docente di Storia dell’integrazione europea all’Università di Padova, che guarda al momento con preoccupata attenzione. Per l'Unione Europea il problema più complicato è dato dal divario crescente tra i suoi rappresentanti e una parte consistente delle opinioni pubbliche, che hanno perso fiducia nel progetto di integrazione nel momento in cui la crisi economica ha fatto saltare i vecchi equilibri.
«La Brexit è solo la punta dell’iceberg dei problemi dell’Unione Europea». Delinea così la situazione attuale Atonio Varsori, docente di storia dell’integrazione europea all’università di Padova, che guarda al momento attuale con preoccupata attenzione.
Brexit è solo la “parte visibile” dei problemi della Ue?
«È il più evidente. Il problema più complicato è rappresentato però dal divario crescente tra le élite europee e una parte consistente delle opinioni pubbliche che non sostengono l’Europa. Se fino a 10, 15 anni fa c’era un consenso verso il meccanismo dell'integrazione, ora siamo di fronte a un cambiamento vistoso e dentro a questa situazione prevale un’evidente irritazione, un’ostilità. E senza consenso non si va avanti».
Da dove nasce questo calo di consenso?
«Sono tre i motivi principali: è saltato il rapporto di fiducia tra elettori e rappresentanti, esiste da tempo una crisi delle leadership politiche nazionali, la crisi economica ha fatto saltare il welfare. L’Unione Europea è stata una costruzione di successo perché, dal Trattato di Roma nel 1956, è stata fondata su un accordo non scritto tra le élite politiche e gli elettori, vale a dire le opinioni pubbliche, basato sulla fiducia reciproca: fateci fare e noi vi assicuriamo sviluppo economico, progresso sociale e un welfare di stato. Stabilito il patto, tutto è filato liscio. Con la crisi economica si è incrinato il rapporto e dal 2008 chi governa ha sostenuto che la globalizzazione era valida in se stessa, per quanto i tagli dei finanziamenti abbiano colpito il welfare».
Ci sono vie d’uscita?
«Se si supera la crisi economica si risolve anche la crisi dell’Unione Europea. Si è rotto il patto non scritto che reggeva l’equilibrio e sono stati chiesti sacrifici ai cittadini, ma alle élite sono stati imposti pochi sforzi e questo ha fatto saltare lo status quo. Da un lato l’UE ha sposato tutti gli aspetti della globalizzazione e del capitalismo, dall’altro ha accettato di smontare lo stato sociale che era elemento di scambio con una serie di diritti civili. Ora, in una situazione di crisi, una parte dell’opinione pubblica nega questi diritti e per questo certi partiti ottengono risultati».
Come si inserisce la Brexit in questo quadro?
«La realtà inglese è particolare e va considerato anche il fatto che la Gran Bretagna si è sempre considerata sovranazionale, ha impostato la relazione con l’Europa come un rapporto tra stati sviluppando accordi di libero scambio. Non a caso l’economia inglese ha subito molto meno la crisi rispetto agli altri membri dell’Unione. L’allargamento dell’Europa continentale ha reso tutto molto più complesso. Con 6/9 membri funzionava bene e quello dell’Unione a 12 è stato il momento migliore; oggi 28 membri sono troppi soggetti da gestire per arrivare a un accordo condiviso. A tutto questo si deve aggiungere la crisi delle leadership politiche in Francia, Italia e Gran Bretagna, mentre torniamo ad avere un problema tedesco. Questa debolezza ha fatto saltare il sistema di equilibri e contrappesi tra gli stati; se prima c’erano quattro paesi sullo stesso piano, poi c’è stata l’unificazione tedesca, l’Italia è stata travolta da tangentopoli e da un declino da cui pare non si riesca a uscire e la Francia si è indebolita al punto che ora è solo una potenza nucleare».
Siamo di fronte a una debolezza strutturale?
«Possiamo parlare di egemonia tedesca e del fatto che, oggi, l’euro è il marco. Il problema vero è che manca la politica e quindi la moneta, l’euro, sostiene il consenso se non crea problemi. Con la crisi economica l’euro appare debole. La situazione è complessa e non di facile soluzione: per 45 anni il patto tra politici ed elettori ha dato risultati, ora va superata la crisi economica per poter tornare a un equilibrio complessivo. La soluzione tedesca non è buona per l’Unione».
La soluzione è l’uscita dall’euro?
«Occorre cercare una soluzione partendo dal perché c’è la crisi dell’Unione Europea, dal perché l’euro funziona male, dal perché funziona solo per la Germania. Non può esserci solo la Banca centrale europea senza la guida di un’autorità politica. Occorre chiarire quali sono le modifiche necessarie, costruire una camera di compensazione, cercare un compromesso che sia a vantaggio di tutti. È necessario condividere e invece ognuno va per conto suo. L’uscita della Gran Bretagna dalla Ue è negativa perché mancherà un contrappeso importante».