Erdogan più forte, Turchia più debole. E la laicità pian piano scompare
Ma che cosa sta succedendo in Turchia, o meglio verso quale deriva sta scivolando questo paese di 78 milioni di abitanti che sembrava lì per lì per entrare in Europa? La domanda non è nuova, ma dopo il fallito golpe del 15 luglio appare più che legittima. Chi conosce un po’ di storia della Turchia se ne fa anche un’altra: dov’è finito il volto laico di questo paese?
La folla oceanica di oltre un milione di persone che il 7 agosto ha manifestato tutto il suo appoggio (compresi i partiti di opposizione, esclusi però i pro-curdi non invitati) al presidente Erdogan, sventolava anche molte bandiere con l’immagine simbolo di Kemal Atatürk.
L’accostamento con l’attuale presidente è storicamente discutibile ma serve ancora molto in termini di propaganda.
Mustafa Kemal (Atatürk lo diventerà nel 1934 con l’approvazione della legge che introdusse l’uso dei cognomi), era riuscito, in un paese dalle forti radici musulmane come la Turchia, a creare uno stato laico e autonomo: rispettoso delle fedi senza essere confessionale.
Le sue riforme, anche se imposte dall’alto con autoritarismo, stupirono non poco.
Abolì il califfato (1924), riconobbe l’uguaglianza fra i sessi, vietò il fez e il velo, agli uomini fu imposto di tagliarsi barba e baffi e di indossare il capello al posto del turbante (1925). Adottò l’alfabeto latino (1928) e il calendario gregoriano spostando il giorno festivo dal venerdì alla domenica.
Nel 1932 fece entrare la Turchia nella Società delle Nazioni e tre anni dopo nella Corte internazionale di giustizia dell’Aja. Tutta la legislazione fu radicalmente modificata con l’acquisizione e il riadattamento di codici stranieri (svizzero e italiano). Seppe dare alla nazione turca un orgoglio di popolo impensabile.
Per incanalare il malcontento che ridusse in povertà il paese nel ’29, creò persino un partito di opposizione (Libero partito repubblicano).
La moschea di Santa Sofia fu chiusa a qualunque culto e trasformata in museo (1935).
Sul piano internazionale mantenne buoni rapporti con la Russia criticando però fortemente il comunismo. Guardava più volentieri ai paesi occidentali.
«L’obiettivo di Kemal – scrive lo storico Fabio Grassi – fu quello di forgiare una nazione unita e solidale, lanciata con entusiasmo all’acquisizione delle civiltà occidentale, considerata la civiltà per eccellenza».
I decenni successivi hanno sempre visto nell’esercito i veri custodi della rivoluzione kemalista, pronto anche a usare le armi – come si è visto anche nel golpe del 15 luglio – pur di difenderne i valori.
Può Erdogan essere considerato l’erede di questa rivoluzione? Vediamo.
Recep Tayyp Erdogan da quando nel 2002 è diventato il leader carismatico della Turchia con il Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), ha guidato per 13 anni il paese con mano ferma attirando consensi crescenti tra le file degli elettori di stampo islamico conservatore, ma strali di disapprovazione fra gli avversari politici e dall’estero.
Negli ultimi dieci anni milioni di turchi sono stati strappati alla povertà, il reddito pro capite è triplicato trasformando la Turchia in uno dei principali mercati emergenti (sono più di 1.200 le imprese italiane operanti in Turchia, nel 2014 gli investimenti italiani nel paese hanno toccato circa 370 milioni, contro i 110 dell’anno precedente).
Basta visitare qualche grosso centro e si vedono ospedali nuovi di zecca che forniscono cure gratuite ai bisognosi. Sul piano delle infrastrutture la Turchia è un cantiere permanente.
A Erdogan non manca certo il fiuto politico.
Coltiva il progetto di trasformare la Turchia in una repubblica presidenziale – più sullo stampo russo che su quello francese – e ha fatto sapere di voler ricoprire la carica di presidente almeno fino al 2023, centenario della repubblica di Atatürk. Per arrivare a questo risultato deve però cambiare la costituzione e finora i voti gli sono sempre mancati. I golpisti gli hanno tuttavia spianato la strada per arrivarci.
Il “Sultano” (non è casuale la scelta di questo appellativo che evoca il fascino del califfato ottomano, compresa l’ambizione) negli ultimi anni ha però visto sbiadirsi un’immagine che sembrava lanciata verso il successo. È sotto gli occhi di tutti la deriva progressiva di Erdogan verso una forma di integralismo religioso che rischia di mettere la Turchia in una situazione di grave imbarazzo internazionale.
Alcuni segnali: nella giornata della donna 2008 ha affermato che il ruolo delle donne nella società turca non è quello di fare carriera ma di «fare almeno tre figlie ciascuna». Recentemente la moschea di Santa Sofia ha già fatto sentire la voce di un iman che invita alla preghiera.
Persino Ankara, capitale laica per eccellenza, patria della rivoluzione politica e culturale voluta da Mustafà Kemal, è ormai una roccaforte dei gruppi religiosi legati all’Akp.
Non è male ricordare che nel 1998, quando era sindaco di Istanbul, Erdogan fu condannato per incitamento all’odio interreligioso e privato temporaneamente dei diritti politici per aver proclamato questi versi: «Le moschee sono le nostre caserme / i minareti le nostre baionette / i fedeli i nostri soldati».
Erdogan si presenta nella propaganda come il logico successore di Mustafà Kemal, ma in effetti ne stravolge il messaggio politico e sociale. Probabilmente Atatürk si rivolta nella tomba.