Il colpo di stato fallito ha sancito definitivamente il potere di Erdogan
Sul fallito colpo di stato in Turchia, l'analisi di Valeria Giannotta, docente di relazioni internazionali all'università di Ankara, è puntuale: afferma che tutti hanno dimostrato di sostenere il governo di Erdogan e che il tentativo di golpe ha destituito definitivamente le giunte militari.
«Questa volta sembra davvero essersi conclusa l’epoca delle giunte militari». Non ha dubbi Valeria Giannotta, docente di relazioni internazionali all’università Türk Hava Kurumu ad Ankara e relatrice alla 13a edizione del workshop annuale organizzato dal think tank “Il nodo di Gordio” a Pergine Valsugana e a Montagnaga di Piné, dal 29 al 31 luglio.
Che idea si è fatta del golpe?
«Segna un punto di svolta nella storia della Turchia: tutti, indipendentemente dal colore politico, hanno dimostrato di sostenere il governo democraticamente eletto. Sembra essersi davvero conclusa l’epoca delle giunte militari: il rischio ora è quello di avviare una massiva caccia alle streghe ed esasperare ulteriormente le spaccature sociali».
Alcuni temono che la reazione al golpe porti alla sharia. Qual è il grado di islamizzazione della società turca?
«Più che di islamizzazione parlerei di visibilità della componente religiosa. Fino all’ascesa del partito Akp ogni istanza religiosa è stata emarginata dal gioco politico e sociale. Il laicismo alla turca, infatti, prevedeva non solo la netta divisione tra religione e affari pubblici, ma anche il contenimento e il controllo sulla prima da parte dello stato. L’Akp ha sdoganato questo cliché reinserendo i conservatori all’interno delle dinamiche politiche e sociali».
Quando ha iniziato a cambiare rotta la leadership di Erdogan?
«La Turchia di Erdogan non è un monolite: fino al 2005 lo zelo democratico-conservatore è stato molto forte. Dopo l’avvio del negoziato con l’Ue ha subìto un certo raffreddamento, dovuto a questioni interne e contrasti con l’establishment kemalista. Il 2013 è stato un anno di svolta con le proteste di Gezi Park, la rottura con l’alleato Fetullah Gülen, e il governo si è trovato a fare i conti con i movimenti di opposizione. Da quel momento in poi l’Akp ed Erdogan si sono rafforzati molto».
Quale fotografia scatterebbe della società turca?
«Oggi si presenta molto polarizzata, non più e non solo sull’asse “islam-secolarismo”. Le fratture sono molteplici: a sfondo etnico-ideologico, nel rapporto con la componente curda e la sua organizzazione armata (Pkk). Quella tra l’Akp e i suoi oppositori, quella confessionale tra musulmani sunniti e aleviti. I militari, costituzionalmente riconosciuti come bastioni del secolarismo, hanno visto ribilanciare il proprio potere a favore di quello civile. Quello che emerge dal fallito golpe è che vi sono delle frange minori che pensano di poter destituire un governo eletto democraticamente. Sono per lo più ranghi giovani. Per Erdogan, invece, per lo più appartenenti al gruppo nemico di Fetullah Gülen».
Fra dieci anni vede una Turchia più europea o più “ottomana”?
«La Turchia ha una propria multidimensionalità per la sua collocazione geografica. Mi auguro un ritorno alla realpolitik, così come è avvenuto con la pace fatta con Israele e Russia. Desidererei una Turchia in Europa, come testa di ponte per il dialogo con il Medio Oriente e per il contenimento delle crisi. Dal 2011 la Turchia, in completa autonomia, ha fatto fronte alla questione dei rifugiati ospitandone 3 milioni sul proprio territorio senza vedere un soldo dalla comunità internazionale».