La preghiera, oasi da riscoprire nella velocità della vita
Il mondo della preghiera è come un oceano, esteso, vario, profondo, il più delle volte insondabile; difficile far rientrare in schemi fissi, in tipologie consolidate, in pratiche codificabili, forme e modalità di chi cerca una relazione orante. Ma una domanda, con tutte le precarietà definitorie, è pur possibile: si prega ancora?
C’è che si fa il segno della croce, passando veloce davanti a un’immagine sacra, un oratorio, un capitello
Chi entra in chiesa, magari sulla via del lavoro, si ferma un attimo, si inginocchia, si raccoglie; altri, in qualsiasi tempo della giornata, aprono una parentesi di solitudine, rimettono in ordine i pensieri e cercano un rapporto con l’“altro”, magari a casa, nell’intimità domestica; poi ci sono quelli che partecipano alla vita e alle attività di gruppi e associazioni, frequentano la parrocchia, vanno a messa alla domenica, addirittura sono parte attiva di aggregazioni che hanno fatto dell’orazione lo scopo primario della propria esistenza.
Il mondo della preghiera è come un oceano, esteso, vario, profondo, il più delle volte insondabile; difficile far rientrare in schemi fissi, in tipologie consolidate, in pratiche codificabili, forme e modalità di chi cerca una relazione orante. Ma una domanda, con tutte le precarietà definitorie, è pur possibile: si prega ancora?
«Certo – risponde il teologo padovano don Giuseppe Toffanello – Anche se i ritmi del nostro vivere non aiutano; siamo tutti troppo presi in un vortice di cose da fare e di velocità da sostenere, le responsabilità del vissuto pesano e paiono lasciare poco margine ad altro, anche alla relazione con Dio. Ma talora accade qualcosa che si impone, che ci costringe a guardare oltre».
Il momento del bisogno?
«La scoperta della debolezza, nostra o di chi ci circonda, magari di qualche persona cara. È innegabile che la fragilità umana, la sua verifica nella quotidianità dell’esistere, è una grande molla che porta anche l’uomo del nostro tempo a rivolgere lo sguardo altrove, più in alto, oltre la realtà immanente. La differenza sta nella costanza di tale evento: c’è chi cerca un rapporto con il Signore soltanto nei momenti di necessità e chi invece coglie che tale situazione è una costante del vivere. E allora trasforma la preghiera in un dato permanente, sempre presente nelle proprie giornate».
Fin qui quello che può accadere nell’intimo individuale. E nelle nostre comunità?
«I fedeli motivati trovano nei loro riferimenti parrocchiali o di gruppo buone opportunità di preghiera, anche se questo dipende dalla qualità della comunità stessa; forse dovremmo uscire dalla pratica del moralismo e affidarci di più a una relazione con Dio all’insegna del confidare, dell’affidarsi».
È cambiato il mondo di pregare?
«Di sicuro oggi è meno formale, non segue schemi particolari, non si basa su una sorta di automatismo; questo è positivo: vi è una maggiore fiducia che il Signore ascolti, proprio perché il modo di rivolgersi al Padreterno è più consapevole, cosciente. È cresciuta la convinzione che la preghiera stessa sia qualcosa di più grande di quello che la persona, l’individuo, possa capire, un desiderio di trascendenza che poi trova espressioni diverse, ma che ha alla base una voglia di Dio».
Questo vale anche per i preti?
«I sacerdoti sono coinvolti nella medesima vita frenetica di tutti gli altri e corrono il rischio di essere travolti: tante cose da fare, molti servizi da offrire. Proprio per questo hanno bisogno di nutrirsi maggiormente, soprattutto in riferimento alla parola. Non so se i confratelli recitino ancora il breviario, ma è certo che il riferimento orante alla parola, ai salmi, a esempio, è ancora un modello di straordinaria validità».
Proprio guardando alla Scrittura, oggi sta crescendo l’esperienza della lectio divina…
«È una pratica importante, anche se non bisogna vivere tale esperienza con l’urgenza del sapere, che caratterizza un po’ tutta la nostra società. Occorre accettare di non capire, di non avere risposte; in fondo anche tutto ciò che rimane sospeso è preghiera, è fidarsi di Dio, che non può certo essere sempre capito o ricondotto ai nostri schemi. Con il Signore le cose, la nostra vita, non sono risolte; la preghiera è condividere tutto questo».
Per don Giuseppe Zanon, a lungo delegato vescovile per il clero della diocesi padovana, il punto nodale è quello della connessione.
«Una volta – spiega – le persone erano in relazione costante con la natura, quindi con la realtà concreta, il mondo, anche gli altri, oggi invece siamo continuamente connessi in maniera virtuale. Pure la preghiera paga questa situazione, la mancanza della capacità di relazionarci, di guardare oltre, anche se non nego che vi sia ancora interesse per la dimensione spirituale, certamente non nei modi tradizionali e codificati».
L’esperienza di chi vive nell’ambito delle comunità di credenti dovrebbe ovviare a tale limite…
«Questo accade, è vero. Basta guardare al diffondersi di alcuni movimenti (penso ai carismatici) o ai gruppi di preghiera, ma nelle nostre parrocchie talora l’attenzione alla preghiera non è così prioritaria; si scelgono vie più agevoli».
Vale a dire?
«Che spesso, piuttosto che fare la fatica di organizzare una preghiera o un’ora di adorazione, si sceglie di celebrare una messa; in fondo è più comodo, non occorre aggiungere nulla, è tutto scritto, delineato».
Ma c’è anche chi fa la fatica di confrontarsi con la parola, pensiamo alle lectio.
«Sicuramente negli ultimi anni c’è stata una crescita nel rapporto con la Scrittura, resta da capire quanto in questo sia prevalente l’aspetto culturale, la voglia di conoscere e sapere, piuttosto che di ascoltare e pregare. Così come bisogna valutare attentamente alcune esperienze in cui il momento orante è intriso di eccessi di emotività».
I preti, pregano?
«Per rispondere, posso partire da una constatazione frutto di un’esperienza. Negli ultimi anni ho seguito molti confratelli anziani, ormai liberati da impegni pastorali. In tutti loro c’era forte il desiderio di potersi finalmente dedicare alla preghiera, fatto che prima, magari per le troppe occupazioni, non era sempre agevole; il senso della preghiera appartiene alla nostra chiesa e ai suoi presbiteri. Per i sacerdoti giovani il discorso è un po’ più complicato: talora ho l’impressione che rischino di praticare quello che viene definito un “ateismo pratico”, vale a dire una sorta di assuefazione al sacro che però impoverisce la vita spirituale. È vero: sono carichi di incombenze, di attività, anche internet o Facebook sono impegni; tutto questo però può portare a un inaridimento della propria spiritualità. Un pericolo, che può essere limitato dai laici».
Che vuol dire?
«Molto semplicemente che talora sono proprio padri, madri, anziani, giovani, che con la loro vita, con la preghiera, possono aiutare i preti a capire qual è l’essenziale, il decisivo nella loro missione. La “gente spirituale” provoca incessantemente i preti. Per fortuna».