Siamo ancora capaci di ascoltare? 29 maggio, Giornata mondiale delle comunicazioni sociali
Le notizie sono discordanti, ma in ogni caso impressionanti. In tre mesi dall’inizio dell’invasione dell’armata della Russia ai danni dell’Ucraina sono già numerosi i giornalisti morti per raccontare un conflitto che nei piani di chi lo ha scatenato avrebbe già dovuto essere concluso da tempo.
Di sette di questi colleghi attivi nell’informazione – alcuni redattori di testate locali, altri inviati stranieri – abbiamo i nomi: Evgeny Sakun (morto il 1° marzo), Brent Renaud (il 13 marzo), Pierre Zakrzewski e Oleksandra Kuvshynova (il 15 marzo), Oksana Baoulina (il 23), Max Levin (il 1° aprile) e Mantas Kvedaravicius (il giorno dopo). Ma stando alla Commissione per la libertà di stampa del Parlamento ucraino, i giornalisti che avrebbero perso la vita dal 24 febbraio al 24 maggio sarebbero almeno 21. Casi drammatici, si dirà, ma mai quanto la perdita di un bambino o comunque non paragonabile ai fatti che abbiamo visto accadere all’ospedale di Mariupol o attorno alle fosse comuni di Bucha. Nei giorni in cui ricorre la 56° Giornata mondiale delle comunicazioni sociali, il pensiero va istintivamente a chi si è trovato invischiato in un conflitto che lo ha sorpreso a casa propria o addirittura ha scelto di andare, di rischiare in prima persona, per raccontare e permetterci di vedere con i nostri occhi l’inferno che è la guerra. Ogni giorno i giornali sono pieni di articoli e approfondimenti dalle zone di guerra. I palinsesti delle televisioni sono zeppi di servizi, reportage, collegamenti a tutte le ore con città e sobborghi di cui prima non sapevamo nulla e ora sono il centro della nostra attenzione. Assistiamo a molte critiche e divisioni: “non ci sono più gli inviati di una volta”, sostiene qualche pensionato di oggi, vedendo giovani colleghi trasmettere da una camera d’albergo. “Quando hai accettato elmetto e giubbotto antiproiettile con scritto Press (stampa), di fatto hai accettato di farti guidare da chi comanda al momento e non sai cosa succede pochi metri più in là”, sostiene un altro ex inviato di punta. Sono tutte osservazioni comprensibili, ma solo se non si tiene conto della persona, ma solo dell’idea di racconto giornalistico che si ha in mente. Dietro (dentro) a quel lavoro c’è qualcuno che sta rischiando in prima persona, esattamente come Evgeny, Brent, Pierre, Oleksandra, Oksana, Max e Mantas.
«È sbagliato scrivere di qualcuno senza averne condiviso almeno un po’ la vita», sosteneva il grande reporter polacco Ryszard Kapuściński, scomparso quindici anni fa. Ne era convinto, il cinico non è adatto a questo mestiere. Ci credeva talmente tanto che questa espressione è diventata persino il titolo di un suo libro. E pensare che, se facessimo un sondaggio, probabilmente sarebbero molti di più coloro i quali descriverebbero proprio come cinici i giornalisti. Al punto che la fiducia nella categoria è ai minimi storici. Di fatto, questi inviati di guerra – tutti coloro i quali li hanno preceduti – hanno dato sostanza al messaggio che papa Francesco ha scritto per la Giornata mondiale che celebriamo questa domenica, nonostante le sue parole siano state pensate ancora nel 2021. Hanno cioè deciso di ascoltare realmente la popolazione ucraina, e non si sono fermati alla prima campana, ma da mesi incontrano persone, costruiscono il loro pensiero su tutta questa orribile vicenda e lo mettono a disposizione, senza pretendere che si tratti dell’unica verità del conflitto. Da un lato ci stiamo dimenticando come si ascolta, scrive il papa, dall’altro podcast e audiolibri rimettono al centro l’udito in questa era dell’immagine. Ma ascoltare è un fatto decisivo per la «grammatica della comunicazione». E non solo. Come sostiene Kaplan, se vogliamo un vero dialogo e un vero confronto dobbiamo essere in grado di ascoltarci, altrimenti diamo vita a un duologo, due persone che fanno un monologo, attendendo che l’altro smetta per dire la propria, senza considerare la sua posizione.