Gedda e le trattative Usa-Russia: il futuro dell’Ucraina è in bilico e l’Europa accelera sul riarmo
A seguito dei colloqui di Gedda, si apre la strada al negoziato tra Usa e Russia. Putin chiede garanzie sulla sicurezza globale, mentre l’Europa accelera il riarmo. Crescono le tensioni sulla gestione della tregua e sul futuro dell’Ucraina

Ora la palla è tra i piedi di Putin. Ma forse è una semplificazione eccessiva. Così parrebbe, visto il documento sortito dai colloqui di Gedda tra la delegazione statunitense e quella ucraina – significativamente in abiti civili. Si sa della tregua, altro non è stato divulgato. Ma le dichiarazioni di Rubio suggeriscono che la direzione incontra le richieste di Mosca: no all’ingresso di Kiev nella Nato e congelamento della situazione sul terreno. Le regioni annesse restano tali, sicché le regole promosse di quanti sino a ieri “scommettevano” sulla vittoria militare senza cedimenti diplomatici restano le stesse, non potendo cambiare a seconda del risultato. Regole di guerra, per cui chi perde non detta le condizioni. Gli accordi di Minsk e la bozza di Istanbul, per la Russia, sono un’esperienza del passato.
Putin dice di voler discutere – con gli Usa, beninteso – delle “sfumature”. Che tali non sono. Si parte dalle forze di interposizione a custodia della tregua.
Per Mosca dovranno essere sotto egida Onu, escludendo i Paesi che, in quanto cobelligeranti, non rispondono al requisito della terzietà, quindi già pronti in sede a dare man forte all’esercito ucraino. Soprattutto, il Cremlino parla di rimozione delle cause sostanziali del conflitto e potrebbe allungare la lista: oltre alla neutralità militare dell’Ucraina, rimozione delle testate nucleari e dei missili a corto raggio della Nato a ridosso del confine russo e un freno definitivo all’estensione atlantista verso est. Putin – che intanto ha il suo da fare con i falchi di casa, che vorrebbero continuare l’avanzata in Ucraina a testa bassa – ribadisce la richiesta formalizzata a Monaco nel 2007: rivedere l’architettura di sicurezza su scala globale secondo il criterio della reciprocità. Con garanzie stabili, indipendenti dai cicli elettorali di Washington, nell’eventualità che dopo Trump torni un’agenda unipolare a revocare tutto.
Trump preme per vestire i nuovi panni del mediatore, scaricando su Biden e sodali europei tutta la responsabilità del disastro, dissimulando la sconfitta anche al costo di evidenziare la grave polarizzazione nella politica Usa, peraltro riverberata nelle fratture in seno compagine occidentale.
Certo, più la si evidenzia, più il Cremlino si dà ragione nel chiedere assicurazioni resistenti al prossimo avvicendamento alla Casa Bianca. Ma per Trump ne vale la pena, mirando a collaborare con la Russia per agevolarsi su altre sfide, dalla Cina al nucleare iraniano.
Pertanto il documento di Gedda è solo uno spunto da cui partiranno i dialoghi russo-americani. Che infatti si danno alle porte, ostentando indifferenza verso le pressioni su armi e sanzioni provenienti da Londra e Parigi, che si intestano la leadership di una non meglio precisata Coalizione dei Volenterosi – nome forse poco felice, già assegnato al gruppo di Paesi reclutati da Bush per attaccare l’Iraq forte della provetta agitata da Colin Powell.
In settimana si attende il Libro bianco sulla Difesa europea, il cui capitolo sul riarmo è stato già approvato a scatola chiusa dal Parlamento Ue (non senza spaccature infrapartitiche), senza delucidazioni sulle modalità d’attuazione e soprattutto senza precisarne la ratio strategica: un’approvazione sulle cifre date a spanne, più che sull’oggetto. Almeno però è chiaro a tutti che il ReArm Europe non verte – com’è ovvio – su una difesa davvero comune. Si ridoteranno gli arsenali dei singoli Stati, ormai svuotati in Ucraina. Trattandosi di armamenti convenzionali, è dubbia la finalità di precostituire una difesa contro la prima potenza atomica del mondo con tanto di vettori ipersonici, la cui minaccia si dà per già pronta.
Speriamo non si tratti di una sindrome di Stoccolma, attiva su due versanti interconnessi.
Uno, per il quale assoggettarsi allo spettro di un pericolo esistenziale per un riarmo “rifondativo”, per ridarsi un senso militare dopo la debacle politica ed economica per interposta Ucraina, tornando a insistere sulla legittimazione emergenziale di una sovranità fondata, più che sul consenso popolare, sulla paura. L’altro versante dipingerebbe un’Europa che sbraccia per attirare su di sé gli occhi di Washington, temendo il declassamento nelle attenzioni geostrategiche. Nella peggiore delle ipotesi, il riarmo così si tradurrebbe nel precostituire magazzini in conto terzi, pronto per altre occorrenze simil-ucraine (Georgia? Moldavia?) nel dopo-Trump.
Intanto von der Leyen prevede che i tagli di bilancio, affiancati dalle liberalizzazioni del welfare e dalle privatizzazioni a prezzo di saldo, saranno attenuati dalla trasformazione dei “risparmi privati in investimenti necessari”. Tradotto: non solo nuova manna sui mercati azionari ma obbligazioni di debito comune, che tuttavia rischiano di fare concorrenza alla collocazione dei titoli di debito statali. Il tutto alimentando la bolla che diversi economisti osservano alla base della iperfinanziarizzazione già saggiata nei suoi effetti nella crisi del 2008. Anche perché i capitali liberati dal ReArm, intercetterà sì l’offerta dell’industria bellica Usa (da cui dipende buona parte della tecnologia militare europea) compensando i tagli alla difesa programmati da Trump, ma potrebbe aprire altri varchi speculativi.
Nella disarticolazione del rapporto razionale mezzi-fini, ci si augura che presto o tardi l’Europa scelga di riarticolare il linguaggio politico che più le si addice, sottraendosi alla grammatica delle armi adesso preferita.
Giuseppe Casale