Minori in comunità, la storia vera di un educatore, ora scrittore
Intervista a Fabio Geda, autore di “L'esatta sequenza dei gesti”, un libro del 2008 appena pubblicato da Einaudi. “Dopo 10 anni di lavoro casa alloggio per minori, ero logorato. I problemi principali? Stipendio e status inadeguati, l'educatore non viene ascoltato. Raccontare questo mondo è necessario ma complesso: la narrazione può fare danni, come è accaduto con Bibbiano”
“L'esatta sequenza dei gesti” è il ritmo di vita, ripetitivo ma sempre precario, di una comunità alloggio per minori. E' quello delle esistenze dei ragazzi che ci abitano, in attesa di un momento migliore, e degli educatori che ci passano 40, 50 ore a settimana. Sono le esistenze che ha raccontato nel 2008 Fabio Geda, allora educatore, e a cui ha rimesso mano ora, scrittore di professione, e che Einaudi ha pubblicato, pochi giorni fa. E' un libro che racconta di una piccola comunità di ragazzi e ragazze, accolti in una comunità alloggio torinese, e della equipe di educatori e assistenti sociali che si occupano di loro, nel momento in cui i genitori non sono (o non sono ritenuti) in grado di farlo. E' la storia di una fuga, sognata da tutti, tentata da due, Marta e Corrado, e di un ritorno necessario, in una realtà che non è la migliore del mondo, ma in quel momento è l'unica in cui è possibile trovare una carezza. “E' un libro per me molto importante – ci dice Fabio Geda – perché ora non sarei più in grado di scriverlo. Sono 10 anni che sono fuori da quel mondo, anche se resto vicino a quell'esperienza per affetto e interesse. Ho pubblicato questo libro con Instar libri nel 2008, un anno prima di lasciare il lavoro di educatore per dedicarmi all'editoria. L'ho leggermente ritoccato, ho tagliato qualcosa. Ma l'urgenza, quella sì, è la stessa”.
Quale urgenza? Perché hai sentito il bisogno di scrivere questo libro? Quale esperienza vivevi allora?
Io ho cominciato a lavorare in comunità alloggio per minori presso una cooperativa sociale di Torino a febbraio 2000 e ho chiuso a dicembre 2009. Ho lavorato sempre in comunità alloggio, in cui venivano accolti massimo 10 ragazzi, con cinque educatori. I ragazzi e le ragazze erano tutti italiani, di solito entravano tra la fine delle elementari e le scuole medie e arrivavano da famiglie con diverse situazioni di fragilità. L'obiettivo era di farli rimanere in comunità meno possibile, far sì che la famiglia diventasse presto in grado di riaccoglierli oppure, nel caso in cui questo non fosse possibile, trovare al più presto un affido. Ma non sempre questo accadeva, anzi avveniva forse nella percentuale minore delle volte. I più rimanevano a lungo, perché la famiglia d'origine non diventava mai adatta ad accogliere e trovare famiglie affidatarie era difficile. Io ho lavorato lì 10 anni e quando sono uscito, nel 2009, mi stavo scontrando con una delle cose che racconto nel libro: un logorio mio personale. Dopo 10 anni non ero più in grado di assicurare la qualità dell'intervento che avevo assicurato prima, sebbene la mia esperienza fosse aumentata. Le condizioni di lavoro erano logoranti sotto tanti punti di vista, dallo stipendio fino alla gestione di quell'intensità, che era fatta di 10 anni di successi e di fallimenti, di fatiche diverse. Ero molto stanco e decisi di provare a vivere con la scrittura: avevo già pubblicato due libri, tra cui questo. E nel 2010 sarebbe uscito “Nel mare ci sono i coccodrilli”. Sapevo che avrei dimenticato molto se non fossi riuscito a catturare parte di quel vissuto in una storia. Per questo, il libro è così importante per me: forse è l'unico che non potrei più scrivere.
Il libro fa entrare nelle stanze della casa famiglia, sbirciare negli angoli, sentire gli odori: quali sono le caratteristiche e le fatiche principali di una casa per minori?
Uno degli aspetti che mi ha maggiormente affaticato è che la comunità alloggio è principalmente la casa dei ragazzi, non dell’educatore. Che certo, va lì tutti i giorni, ma poi torna a casa sua. Questa è una delle sensazioni che nel tempo mi hanno logorato. Faticavo ad entrare in un luogo e gestirlo come fosse casa mia, quando non era casa mia e quando, a turni, c'erano altre persone a gestire la situazione in modo diverso da come avrei fatto io. Questo conflitto educativo è normale nella vita di coppia, ma lo si affronta quotidianamente: in comunità, invece, tra colleghi è più complicato da gestire, nonostante le riunioni di equipe e le supervisioni, nonostante si cerchi disperatamente e professionalmente di essere coerenti e coesi.
Un altro problema, ricordo, che mi faceva piuttosto soffrire, riguardava il budget che avevamo per la vita della comunità, che era assolutamente insufficiente. Capitava spesso che noi educatori volessimo far vivere ai ragazzi una qualche esperienze, portarli in giro, o magari comprare cose utili per la comunità o per loro, e che invece non potessimo permettercelo. Non so quanto questi aspetti siano migliorati oggi, ma so che quasi tutti quelli che hanno lavorato con me in quegli anni hanno cambiato lavoro o servizio. E questo la dice lunga su quanto sia complicato e faticoso il mestiere di educatori di comunità.
Le strutture per minori, come tutte le strutture in generale, sono oggi spesso rappresentate come una realtà da superare. Cosa ne pensi?
Che invece sono assolutamente necessarie. Ascanio (uno dei protagonisti del libro, ndr) è un educatore che fatica, ma decide comunque di esserci e di lottare, perché ama quel lavoro. Nel migliore dei mondi possibili, nessun bambino verrebbe mai tolto alla sua famiglia, ma nel nostro mondo questo è spesso necessario. E l'Italia è uno dei paesi che “toglie” meno. E nel migliore dei mondi possibili sarebbe bello avere altre famiglie a cui affidarli, ma non sempre ci sono. Le comunità servono, gli affidi servono, l'educativa territoriale serve, serve tutto. C'è la famiglia che può essere aiutata con un educatore, quella che può essere messa in rete con altre famiglie e sostenuta con affidi diurni, ma in certi casi l’unica alternativa è la comunità alloggio e allora ben venga la comunità.
Con quello che si dice “il senno di poi”, quali credi che siano le principali criticità da risolvere nelle comunità alloggio?
La questione economica è importate: per troppo tempo, questo lavoro si è basato sull'entusiasmo degli educatori, in un'ottica di sacrificio, quasi di martirio. La passione serve, ma il fatto che questo lavoro non si scelga per i soldi, non giustifica uno stipendio da fame. Un altro problema è lo status dell'educatore: una grande fatica, all'epoca, era sapere che in trincea con il ragazzo ci fossi io, ma che poi il mio punto di vista sulla questione valesse meno di quello dell'assistente sociale che incontrava il ragazzo quattro volte l'anno, o della neuropsichiatra infantile che lo vedeva una volta al mese. Io ero tutti i giorni con lui, ma l'ultima parola l'avevano altre professionalità, che io rispettavo, ma da cui non ero certo di essere ugualmente rispettato. Il terzo problema è la 'manutenzione' degli educatori da parte delle cooperative: manca spesso l'ascolto rispetto alle sue fatiche, alla gestione dei progetti. Questo è un lavoro che è difficile fare rimanendo per tanto tempo nello stesso ruolo e nello stesso posto: anche per questo, forse, le cooperative potrebbero inventare soluzioni diverse. Lo dico sulla base della mia esperienza e di quello che ho vissuto per dieci anni. .
Cosa pensi della rappresentazione, narrativa e giornalistica, degli assistenti sociali e delle strutture per minori?
Penso che la parola chiave sia complessità: chi prova a descrivere questo mondo, deve essere tanto onesto da sapere che non sarà mai esauriente. Solo l'accumulo di narrazioni può darne un quadro completo: mai il singolo film, romanzo o articolo potrà fotografare tutto il mondo del disagio minorile, delle cooperative sociali, delle comunità. Il problema è che i giornali e le tv tendono a raccontare solo il lato oscuro di questa esperienza oppure, al contrario, ad essere eccessivamente generosi. Ma siamo di fronte a un mondo complesso e con un'alta conflittualità. Complessità ed equilibrio non sono facili da mantenere nella narrazione, forse anche perché spesso questi mondi sono raccontati da chi non li conosce e non li ha mai vissuti. Anche per questo mi sono sentito in dovere di scrivere questo libro, allora che quel mondo lo abitavo. Se provassi a raccontarlo oggi, lo farei con lo sguardo del ricercatore che va a curiosare in casa di altri e prova a giudicare. Non è questa la narrazione di cui questo complesso mondo ha bisogno.
Chiara Ludovisi