Il Cantico dei cantici. Non si può dire “ti amo” se non è per sempre
Martin Buber ha avuto modo di dire che il Cantico ci rivela la possibilità di vivere “faccia a faccia” l’amore, di interpretare l’esistenza come un autentico dialogo fra un tu e un tu.
Mi sarebbe piaciuto essere fra quei rabbini che nel primo secolo dopo Cristo dibatterono in una sorta di “sinodo” prendendo la decisione che il cosiddetto “Cantico dei Cantici”, ovvero il cantico per eccellenza, il più bello di tutti, entrasse a far parte della Bibbia, dei libri ispirati da Dio. Da allora, però, questa inclusione è motivo di grande ispirazione, riflessione e consolazione non solo per i nostri fratelli maggiori ebrei ma per tutti noi cristiani. Il Cantico è un piccolo, intensissimo carme poetico che, attraverso un linguaggio grondante di immagini e metafore tratte dal mondo animale e vegetale, racconta la dimensione erotica dell’amore fra un giovane e una giovane (non si specifica che siano già sposati).
Attraverso i cinque sensi quella che viene offerta al lettore in modo appassionato e sempre coinvolgente è un’arte dell’amore che non preclude e non censura nessuna delle parti di cui si compone il rapporto amoroso, dallo sguardo alla carezza, dal bacio all’amplesso. Non basterebbero queste righe per riportare tutta la ricchezza del linguaggio che la poesia utilizza; fiumi e fiumi di inchiostro sono stati versati dai commentatori nel corso dei secoli. Quella raccontata è un’avventura che tutti coloro che si sono davvero innamorati di una persona possono ripercorrere e leggere come si leggesse una poesia-preghiera, in un atteggiamento estatico che si avvicina molto a quello della mistica, dove la mente lascia spazio alle ragioni del cuore. Martin Buber ha avuto modo di dire che il Cantico ci rivela la possibilità di vivere “faccia a faccia” l’amore, di interpretare l’esistenza come un autentico dialogo fra un tu e un tu, un incontro di volti, di identità nel loro più profondo essere. È per tale motivo che questo libro si pone in una posizione apicale rispetto a tutta la Scrittura: perché esso apre alla possibilità di un amore che si consuma in un giardino, libero e non alienante, in pienezza e non schiavizzante a differenza di quello che era successo nell’altro giardino, quello dell’Eden, in cui si dice che la brama, il desiderio della donna sarà verso l’uomo ed egli la dominerà. No, questo destino di sopraffazione, questo stato di fatica, di incomprensione che nell’atto amoroso l’uomo e la donna ancora oggi sperimentano, può essere superato, può andare al di là delle nostre forze ed essere illuminato dalla luce di Dio.
Il Cantico invita gli amanti ad uscire e andare ciascuno verso la verità di sé stessi e insieme verso un amore che se si chiama così è per sempre. Non si può dire “ti amo” se non è per sempre. Nel corso del carme, l’amante e l’amato si perdono (Ct 3,1-4: “voglio cercare l’amore dell’anima mia. L’ho cercato, ma non l’ho trovato”), a significare che ogni storia d’amore è fatta anche di smarrimenti, è un legame fragile quello che gli uomini sanno stringere fra loro… ci si può perdere, rinnegarsi, ma poi ritrovarsi: l’importante è non offuscare il desiderio di comunione con l’altro, un desiderio che si differenzia dalla logica del possesso e dalla strumentalizzazione reciproca. Gli amanti si inseguono nella loro libertà e si contemplano nella bellezza e in quella che San Giovanni Paolo II la chiamato “la liturgia” dei loro corpi. La meticolosità, a tratti impudica nella sua purezza, con cui sono descritte le parti anatomiche dei due innamorati libera il campo da tanto moralismo che si è accumulato nei secoli anche nella tradizione cristiana.
Oggi possiamo leggere con fiducia e coraggio questo testo e capire perché esso si rivolga a tutti gli uomini e, in particolare a chi vive la fede in Gesù. Il Cantico termina, infatti, con un’affermazione fondamentale, che differenzia il pensiero ebraico-cristiano da quello di tutte le altre culture: nel duello fra Thanatos (Morte) ed Eros, non è vero che la morte vincerà: “Mettimi come sigillo sul tuo cuore, come sigillo sul tuo braccio (cioè fammi destinataria da oggi di tutto il tuo agire) perché forte come la morte è l’amore, tenace come il regno dei morti è la passione, le sue vampe sono vampe di fuoco, una fiamma divina” (Ct 8,6). L’amore viene da Dio e in quanto tale avrà l’ultima parola proprio come abbiamo sperimentato con Gesù Cristo che è risorto perché ha amato i suoi fino alla fine e quel suo amore non poteva andare perduto.