Riforme in stallo. Nota politica
Per evitare ricadute sull'esecutivo in un momento così delicato per la vita del Paese, si sono messe da parte le riforme istituzionali.
Prendersi cura del funzionamento di una democrazia, rafforzarlo e aggiornarlo, non è una questione per addetti ai lavori, un lusso intellettuale che non ci si può concedere in una fase storica segnata dalla pandemia e dalla guerra. Semmai è vero il contrario. La diffusione del Covid, le sue conseguenze sanitarie e sociali, hanno rappresentato una sfida per certi versi inedita alle istituzioni della Repubblica. E ora che questa sfida, pur non essendo affatto esaurita, appare a torto o a ragione meno insidiosa, è la guerra provocata dall’invasione russa dell’Ucraina a mettere alla prova la capacità del nostro sistema – così come quella delle altre democrazie – di offrire risposte in grado di coniugare le ragioni della pace con quelle del rispetto del diritto internazionale. Tanto più in un contesto in cui il confronto con regimi in tutto o in parte illiberali fa risaltare il bene prezioso di assetti costituzionali fondati su libertà, pluralismo e riconoscimento dei diritti della persona, pur con tutti i limiti che segnano inevitabilmente ogni organizzazione umana.
La legislatura in corso, entrata ormai nel suo ultimo anno di vita, si rivela da questo punto di vista una grande delusione. La drastica riduzione del numero di deputati e senatori, confermata con referendum da tanti cittadini che sarebbe ingiusto e ingeneroso arruolare in blocco nel fronte dell’antiparlamentarismo populista, è rimasta isolata. Poteva e doveva rappresentare una scossa capace di innescare un percorso riformatore ponderato e lungimirante e invece non è accaduto quasi nulla, se si eccettua l’introduzione del voto per tutti i maggiorenni anche al Senato. Una misura comunque positiva perché, rendendo omogeneo il corpo elettorale di entrambi i rami del Parlamento, riduce il rischio di maggioranze diverse nelle due Camere che pure hanno le stesse identiche funzioni. Un intervento razionalizzatore su questo “bicameralismo perfetto”, per esempio, sarebbe stato estremamente utile. L’esperienza legislativa degli ultimi anni ha dimostrato anche sul piano pratico l’illogicità di questa anomalia tutta italiana, dando luogo per reazione a un “monocameralismo di fatto”: un ramo del Parlamento approva un disegno di legge e l’altro – per cause politiche e procedurali – non può che limitarsi a ratificare. La stessa riforma elettorale, che di per sé non richiede il lungo iter della revisione costituzionale e quindi, in teoria, sarebbe ancora realizzabile, sembra ormai incanalata su un binario morto.
L’ampia maggioranza parlamentare che si è coagulata interno al governo Draghi poteva offrire il contesto giusto per il dialogo necessario alle riforme istituzionali. Paradossalmente è diventata un ostacolo insormontabile per l’incapacità dei partiti di tenere distinti i piani. Così, per evitare ricadute sull’esecutivo in un momento così delicato per la vita del Paese, si sono messe da parte le riforme istituzionali. Non è un caso che anche altre riforme di sistema, cruciali e urgenti come quelle previste dal Pnrr, vedano la luce con enorme fatica e tra mille contraddizioni nonostante gli impegni presi.