L’integrazione alla prova. A Monfalcone quattro studentesse entrano in classe ogni giorno velate con il niqab
Come valorizzare il lavoro della scuola per una reale integrazione nella società e una crescita consapevole nell’ottica dei valori della nostra Costituzione?
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Succede a Monfalcone: dall’inizio dell’anno scolastico quattro studentesse di una scuola secondaria entrano in classe velate con il niqab, un indumento che copre interamente la persona, ad esclusione degli occhi.
All’ingresso dell’istituto fanno una sosta in un’aula dedicata per essere riconosciute da una docente e solo dopo vanno nelle loro classi.
Quando la notizia si è diffusa sono scattate immediatamente le reazioni più o meno indignate di fronte a un fenomeno che in effetti crea non pochi problemi: come è possibile andare a scuola con un velo che non solo impedisce di riconoscere le allieve, ma anche pone limitazioni alla stessa attività didattica (ad esempio l’educazione fisica)? E come conciliare gli usi e le scelte motivate religiosamente (le giovani di Monfalcone, di origini pachistane, indossano il niqab in osservanza alla propria tradizione islamica) con la laicità della scuola del nostro Paese? Esiste poi una legge italiana che vincola alla riconoscibilità nei luoghi pubblici.
Non è una questione di poco conto, né riguarda solo l’Italia. In Francia, ad esempio, da tempo la scuola non ammette il velo islamico, così come altri segni o indumenti e che ostentino un’appartenenza religiosa. E il problema si pone anche in altri Paesi dell’Unione europea.
I temi sollevati sono sia quello della riconoscibilità delle persone – certamente – ma più ancora quello dell’integrazione e del rapporto delicato tra tradizioni e norme italiane (restiamo da noi) e usanze ben differenti.
La scuola – ha rimarcato il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara – deve essere un luogo di vera integrazione e di valorizzazione della dignità della persona. Nello stesso tempo ha spiegato che al momento non esiste una legge precisa che permetta comportamenti univoci, ad esempio il divieto specifico di presentarsi con il niqab.
Interessante anche la motivazione sostenuta dalla preside dell’istituto di Monfalcone nell’autorizzare i comportamenti in atto (controllo all’ingresso e poi via libera alle allieve velate): si tratta, ha spiegato, di garantire la continuità e combattere l’abbandono scolastico. Le studentesse in questione, infatti, potrebbero lasciare la scuola se questa non permettesse loro di restare velate (una si è già ritirata). “Il ragionamento – ha spiegato la preside – ci ha portato a ritenere che imporre può indurre le ragazze a lasciare la scuola, mentre l’istituzione raggiunge il suo scopo quando l’allievo consegue i cinque anni di studio. Di qui la necessità di ricreare tranquillità e fiducia per far sentire a casa le giovani e capire se il lavoro di insegnanti e compagni possa portarle a essere più libere”.
Una scelta mirata, dunque. Discutibile, ma che fa riflettere sulla necessità che la scuola intercetti le esigenze e sappia rispondere avendo a cuore l’obiettivo educativo.
Qui si apre il dibattito. Non sulle teorie, ma nella pratica educativa. Cosa è più fruttuoso? Come valorizzare il lavoro della scuola per una reale integrazione nella società e una crescita consapevole nell’ottica dei valori della nostra Costituzione (questi sono l’ambito all’interno del quale si muove l’istituzione scolastica)?
L’auspicio è che la “provocazione” di Monfalcone faccia riflettere serenamente e in modo proficuo sul tema. Magari mettendo da parte i proclami arrembanti e scendendo sul piano quotidiano, concreto, di chi si misura con l’integrazione tutti i giorni. Una legge specifica può certamente aiutare, ma si ragioni al riparo dal frastuono delle ideologie.