Politica e scelte fiscali
Nonostante tutte le misure effettivamente varate e le dichiarazioni programmatiche dell’esecutivo, la pressione fiscale è aumentata, non diminuita
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Le scelte in materia fiscale sono da sempre uno dei terreni principali della contesa politica. Tra maggioranza di governo e opposizioni, naturalmente, ma anche all’interno della stessa maggioranza. Proprio sul terreno fiscale, infatti, si è aperto nei giorni scorsi un nuovo capitolo delle tensioni nell’esecutivo, con la Lega che non perde occasione per cercare di smarcarsi dalla tendenziale egemonia meloniana. Con FdI, Salvini e i suoi si sentono in competizione diretta, come dimostrano anche i movimenti a livello europeo, in una fase in cui a destra si sgomita per accreditarsi come interlocutori privilegiati del nuovo corso americano.
Stavolta il motivo specifico del contrasto è negli scarsi risultati del concordato preventivo, la misura che avrebbe dovuto portare nuove risorse nelle casse pubbliche soprattutto per poter ampliare la portata della revisione delle aliquote Irpef. Su questa operazione il governo ha puntato molto, con qualche risultato significativo e tuttavia anche con alcune distorsioni rilevanti: nel nuovo assetto degli scaglioni non tutti guadagnano e, anzi, c’è chi perde o comunque non ottiene benefici. Un problema che riguarda soprattutto il ceto medio, ma pure una particolare fascia dei meno abbienti. Intanto però la Lega rilancia e propone una nuova rottamazione delle cartelle in versione maxi. Del resto molti osservatori attribuiscono il flop del concordato preventivo al fatto che chi non ha pagato le tasse non corre il rischio di emergere se non ne ricava un vantaggio chiaro e sostanzioso. La forma “gentile” di condono rappresentata dal concordato, in questa chiave, non avrebbe avuto un’attrattiva sufficiente.
Il grande paradosso, però, è un altro. Nonostante tutte le misure effettivamente varate, in particolare il taglio del “cuneo”, e le dichiarazioni programmatiche dell’esecutivo, la pressione fiscale è aumentata, non diminuita. Lo ha certificato l’Istat nell’ultimo Conto trimestrale delle amministrazioni pubbliche, relativo al terzo trimestre del 2024 e diffuso all’inizio di quest’anno (il prossimo arriverà ad aprile). La pressione fiscale è salita di quasi un punto (+0,8%) rispetto allo stesso periodo del 2023, attestandosi sul 40,5%. Un’autentica beffa dovuta in larga misura al fiscal drag, letteralmente “drenaggio fiscale”, il fenomeno che si manifesta in tempi di inflazione quando le tasse crescono più dei redditi in maniera automatica. Detto in altre parole, i redditi crescono nominalmente a causa dell’inflazione e la tassazione aumenta come se si trattasse di una crescita reale, ma non è così. Manco a dirlo, questo effetto colpisce soprattutto lavoratori dipendenti e pensionati e in particolare quelli a basso reddito, mentre ne sono esenti coloro che già godono dei benefici di una tassazione piatta, la cosiddetta flat tax.
Senza tornare a forme di indicizzazione già sperimentate negli anni Settanta e Ottanta (la famosa “scala mobile”) che però finivano per innescare e moltiplicare le dinamiche inflazionistiche, ci sarebbero oggi gli strumenti tecnici per restituire ai lavoratori quanto impropriamente “drenato” sul piano fiscale. Ma è un problema di volontà politica e ancor di più di risorse da reperire, mentre quello che abbiamo davanti è “uno scenario decisamente sfavorevole”, per dirla con il ministro dell’Economia Giorgetti.