Sinodo. La comunicazione della fede. Meno parole, più vita

12° tema. “La comunicazione della fede: l’azione corale di tutta la comunità”. Quattro sensibilità a confronto

Sinodo. La comunicazione della fede. Meno parole, più vita

Il tema del Sinodo diocesano che trattiamo in questo numero guarda alla comunicazione della fede, impegno che chiama in causa tutta la comunità cristiana, tanto più in tempi in cui l’essere umano è sottoposto a continui stimoli, ma si ritrova alla fine smarrito e senza pace. Comunicare la fede significa forse, prima di ogni cosa, viverla con gioia ed entusiasmo, così da essere cristiani credibili e contagiosi per chi ci è accanto; la comunicazione della fede ai giovani, in
particolare, interroga profondamente la Chiesa di oggi. Ne è consapevole Matteo Pasqual, padre di quattro figli, pedagogista di comunità, consulente per scuole, pubbliche amministrazioni, diocesi, e da alcuni anni collaboratore dell’ufficio di Pastorale dei giovani di Padova. «Continuiamo a dire molte parole ai nostri giovani, soprattutto ciò che devono o non devono fare quando invece dovremmo chiedere loro che cosa vogliono fare, costruire con loro. A scuola li riempiamo di informazioni e ci occupiamo solo di fornire informazioni alla loro testa, mentre ci scordiamo completamente che prima esiste un corpo. Dio stesso si è incarnato e ha sacrificato il suo corpo per noi, e la Chiesa è corpo di Cristo, noi mangiamo il suo corpo; credo sia necessario un recupero della corporeità, meno parole e più ritorno a una dimensione di gioco e di incontro. Nel Vangelo, si dice: “Gesù li guardò e li amò”: prima ha visto il loro corpo, dunque; noi non ne facciamo più esperienza, i giovani sono chiusi in se stessi, hanno paura del confronto. È più semplice relazionarsi con la tecnologia che ti fa credere che puoi essere ciò che vuoi, quando invece la libertà più grande è aderire a ciò che si è. Mai come oggi abbiamo possibilità infinite di conoscere il mondo, di spostarci, di vedere luoghi e incontrare persone, di essere liberi, eppure c’è un proliferare di malattie psicosociali e un consumo elevato di farmaci». Pasqual prosegue il suo ragionamento soffermandosi sulla differenza tra scegliere e decidere. «Quando io scelgo, opto per qualcosa di cui ho già fatto esperienza, che conosco; quando invece mi trovo a dover decidere, devo andare verso una strada che non conosco, per questo serve coraggio, usare il cuore. Ecco che la comunità può aiutare i giovani a decidere, stimolando esperienze e stando loro accanto con l’esempio, essendo adulti coerenti. La fede è stare insieme a persone di cui ti fidi e i giovani cercano famiglie che li accolgano. Comunità è mettere in comune ciò che si ha, non posso dare fede se non ho fatto prima io l’esperienza di Gesù; i giovani vogliono che tu sia con loro, vogliono un abbraccio. Don Bosco aveva un metodo semplice: affidava ciascun ragazzo a una persona dell’oratorio, non perché ci parlasse, ma perché facesse esperienza di vita “con” quella persona…».

Anche suor Barbara Danesi, della comunità delle suore elisabettine, lavora da tempo con i giovani che vivono nelle parrocchie della diocesi ma anche con quelli che incontra nelle esperienze di volontariato all’Opsa o alle Cucine popolari. «Credo molto nell’importanza di comunicare la fede mettendoci tutti insieme, creando ponti tra sacerdoti, laici, consacrati, religiosi; è necessario sempre più uscire da noi stessi, fare un passo indietro, provando a guardare con occhi nuovi e restando accanto ai giovani. Sento che la nostra vita di consacrate e consacrati non ci vuole relegati
negli istituti, ma che la chiamata è a collaborare con la diocesi in cui siamo inseriti, partendo dalle parrocchie, mettendo insieme tutte le forze, tutte le singole vocazioni. Credo molto nella pastorale giovanile, penso che non stiamo ancora dando ai giovani quanto ci hanno chiesto nel recente sinodo che li ha coinvolti, e cioè essere responsabili, protagonisti nella chiesa. A noi spetta accompagnarli nonostante questo richieda tempo, pazienza e fatica. Infine credo molto nell’importanza dell’accompagnamento personale, è necessario investire nella formazione degli adulti».

Mariateresa Stimamiglio è invece una laica impegnata da anni nella formazione di adulti e genitori chiamati a svolgere il ministero di iniziazione cristiana, il cui cammino è stato rinnovato una decina d’anni fa e oggi è nuovamente oggetto di verifica, visti i contesti culturali in cui viviamo, in continuo mutamento. «La formazione sta sicuramente alla base della comunicazione della fede ed è necessario risvegliare la fede negli adulti. Io ho cominciato anni fa, quando ero in Azione cattolica, al tempo avevamo realizzato la necessità di avere degli educatori adulti preparati; per questo, con don Franco Canton, metteremmo in atto un progetto che aveva come obiettivo proprio quello di formare questi animatori adulti. Poi, dieci anni fa, con il rinnovamento del percorso di iniziazione cristiana, abbiamo fatto tesoro dell’esperienza precedente e apportato alcuni cambiamenti, proponendo i cinque laboratori più significativi: la risposta è stata molto buona ed è venuto a galla un mondo adulto che era sopito nella Chiesa. In questi anni abbiamo continuato ad avere adulti che si sono responsabilizzati rispetto all’accompagnamento e alla trasmissione della fede, e anche la partecipazione di molti genitori che sono poi rimasti all’interno delle varie comunità come catechisti, animatori o accompagnatori». I corsi formativi, che si realizzano spesso a livello vicariale, hanno l’obiettivo di risvegliare la fede dei genitori che molte volte aderiscono ai servizi comunitari con maggior entusiasmo e freschezza di quando erano giovani. «Oggi è in corso un lavoro di verifica complessiva del cammino di iniziazione cristiana - continua Stimamiglio - abbiamo proposto alcuni questionari alle comunità cristiane che ci permetteranno di fare una riflessione. I pilastri dell’iniziazione cristiana restano comunque gli stessi: la richiesta del battesimo da parte dei genitori, alcuni incontri alla scuola materna che riprendono in modo sistematico con il percorso scolastico, la prima evangelizzazione, il discepolato, infine due anni di fraternità dopo aver ricevuto comunione e cresima, che si ricevono insieme, preferibilmente nella veglia pasquale. Per i genitori la proposta è sempre libera, offriamo loro la possibilità di riprendere il cammino di fede, opportunità che possono accogliere o meno».

Una forma diversa di comunicazione della fede può arrivare da religiosi e laici che vivono esperienze di missione, i fidei donum. «Ho passato nove anni in Ecuador come missionario – racconta don Saverio Turato, parroco di Arzergrande – Ho vissuto momenti e relazioni molto intense lì, ma è difficile pensare di riprodurre la stessa organizzazione nelle nostre parrocchie. Le due realtà non possono essere messe a confronto: lì, per esempio, le comunità cristiane sono più giovani e molto vitali, l’entusiasmo va quasi contenuto e incanalato, cercando di riconoscere i carismi di ciascun gruppo di fedeli; qui, le cose sono diverse, ma in entrambi i casi mi piace sottolineare l’aspetto della coralità, la condivisione di impegni e attività tra religiosi e laici, aiutandosi l’un l’altro; non solo e non sempre il sacerdote come unico soggetto, ma la presenza e l’impegno di più persone nella trasmissione della fede. Della missione, da cui sono rientrato da poco più di un anno, conservo ancora nel cuore, con un po’ di pudore, molti momenti di vita; mi porto una grande umanità, storie belle e meno belle, avvenimenti positivi ma anche difficoltà. In generale, credo che le missioni siano esperienze positive perché vedono la collaborazione tra chiese, lo scambio di esperienze che fanno bene al clero e alle singole comunità».

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