I sogni di Francesca Pattaro? "Le Olimpiadi... e più considerazione per noi donne in bici"
Nata a Este nel marzo del 1995, Francesca Pattaro vive a Vò. Specialista nell’inseguimento a squadre, sempre su pista è competitiva pure nell’inseguimento individuale, nello scratch, nella corsa a punti, nell’omnium e nella velocità, sia individuale che a squadre. Sesta all’Olimpiade di Rio nell’inseguimento a squadre (con record italiano), nella stessa specialità si è piazzata quarta ai recenti mondiali di Hong Kong. Elite dal 2014, dallo scorso anno è con la BePink-Cogeas (attività su strada), formazione femminile italiana con licenza Uci Women’s Team.
«No, noi donne non siamo professioniste, non lo siamo: élite, così ci chiamano. Non siamo considerate professioniste, non importa se poi ho un contratto con tutti gli obblighi verso la squadra, non importa che io sia in una squadra Pro Tour e sia spesso/sempre in giro per il mondo a gareggiare. Certo, ho uno stipendio, è quello che è, mi salvo grazie ai premi con la Nazionale e l’unica strada rimane quella dei corpi sportivi dello stato: nonostante sia andata alle Olimpiadi ancora non sono entrata, un po’ mi rompe a dir la verità, ci terrei ad avere maggiore sicurezza economica. Così sì è lavoro: ti alleni, stai attenta all’alimentazione, vai in giro per il mondo, ma non siamo considerate, non sono considerata».
Nata a Este nel marzo del 1995, Francesca Pattaro vive a Vò. Specialista nell’inseguimento a squadre, sempre su pista è competitiva pure nell’inseguimento individuale, nello scratch, nella corsa a punti, nell’omnium e nella velocità, sia individuale che a squadre. Sesta all’Olimpiade di Rio nell’inseguimento a squadre (con record italiano), nella stessa specialità si è piazzata quarta ai recenti mondiali di Hong Kong.
Elite dal 2014, dallo scorso anno è con la BePink-Cogeas (attività su strada), formazione femminile italiana con licenza UciWomen’s Team.
«Se mi sento comunque una privilegiata? Dai, subito mi vien da dirti no, non lo sono, lavorando per dire in un supermercato sarebbe meglio, mi farebbe sentire più tranquilla… ma se poi ci penso, ecco che dei privilegi li avverto. Già il fatto di girare il mondo, il sapermi organizzare e andare, ecco, una sorta di marcia in più mi pare d’averla se guardo magari qui alle mie coetanee, alle abitudini di chi ha la mia età. Se poi però ci penso ancor di più, capisco che il vero privilegio che ho è quello di avere alle spalle una famiglia come la mia. Potevano anche dirmi di lasciar stare e di lavorare nell’azienda qui di famiglia: invece mi hanno sempre permesso di correre, mi hanno aiutato, senza mai chiedere nulla».
«Tutto è iniziato un po’ per caso. Lì alle elementari tutti che facevano sport, chi danza, chi karate, chi calcio. Vedevo che alcune delle mie amiche sapevano fare la verticale, la spaccata, la ruota… anch’io volevo fare come loro ma a casa non avevano tempo a portarmi, c’erano i campi a cui star dietro, finché una sera è stato mio fratello Fabio – lui che aveva corso in bici ed era arrivato sin ai dilettanti – a uscirsene fuori con un “ma perché non le facciamo fare ciclismo?”. Quasi subito m’è arrivata dalla società qui di Vò la mia prima bici da corsa, gialla e grigia, la maglia, il borsone. Non sapevo nulla, come ci si vestiva, le bretelle andavano sopra o sotto? Idem correre, il cambio e quelle leve, tutto. Mio fratello a insegnarmi, sono arrivata mi pare terza la prima corsa, la seconda l’ho vinta. Quel che però mi piaceva della bici non era tanto che vincevo, quanto quel senso di squadra che si avvertiva, l’amicizia tra tutti».
«Riconosco adesso che mi ha proprio cambiata la bici, pure lo stesso modo di vivere. Prima mangiavo poco, tantissime schifezze (dolci, pastine, succhi di frutta), sempre davanti alla tv, con i miei gatti (che continuo comunque ad amare). Poi la bicicletta mi ha cambiato, mi ha aiutato a diventare quello che sono, mi ha “svegliato”, mi ha insegnato tanto. Un mio motto è che in fondo non perdo mai: o vinco o imparo. Perdere è dura, di mezzo l’orgoglio, il deludere per esempio la mia famiglia: non ne faccio una malattia, no, ma sotto sotto continua a bruciare. Dagli errori si impara, lo so; veri e propri exploit non ne ho mai avuti, ma mi rendo conto che sto continuando a crescere, anno dopo anno, e vorrà pur dire qualcosa se a 21 anni ero già alle Olimpiadi, mica è poco una cosa così. No, non sono una di quelle che si porta la bici in camera, né che sia sempre lì a pulirla e lucidarla. Però mi rendo conto che ogni tanto, fin che sono lì che mi avvicino per andare a correre, allora mi viene come di accarezzarla, dalla sella al manubrio, per riconoscenza, quasi per ringraziarla».
«Di mio ci sto mettendo tanta e tanta passione, è questa spinta che non mi fa considerare i sacrifici – che ci sono – come tali. Beh, uscire con la pioggia mi piace proprio poco, ma allora vado in palestra o magari me ne sto lì tre ore sui rulli, sì tre ore, con le cuffie e ascolto musica.
Di sogni ne ho due: il primo è una medaglia olimpica a Tokio 2020, quando avrò 25 anni, l’età migliore. Il secondo è un podio ai Mondiali, magari una maglia iridata, va. C’è chi dice che anche su strada avrei qualità, potrei fare parecchio. Ma è un qualcosa che non sento, non provo quel che mi capita di sentire con la pista: lì sopra, a certe velocità, la bici proprio va… mi piace troppo».