La lezione della Brexit: una vera classe dirigente non delega le sue responsabilità
Il voto per la Brexit è figlio dell’Inghilterra profonda, dei ceti popolari, degli anziani. Ma gettare ogni colpa sul cittadino medio, magari già in là con gli anni e incattivito dal peggiorare delle condizioni di vita, significa non cogliere il problema. Semmai, il disastro causato da Cameron chiamando gli inglesi alle urne può spingerci a sollevare un interrogativo che a qualcuno parrà politicamente scorretto, ma che a noi sembra invece ineludibile: davvero “dare la parola ai cittadini”, sempre e comunque, segna il trionfo della democrazia? O c’è una responsabilità che le classi dirigenti non possono delegare di fronte a problemi così complessi?
Ora che i giocatori europei sono a tutti gli effetti “stranieri”, i grandi club inglesi rischiano di dover rinunciare a molti dei loro campioni.
Ora che le porte dello “spazio aereo comune” si sono chiuse, forse Ryanair non potrà più offrire voli per le spiagge di Ibiza al costo di una cena.
È da questi dettagli che si comprende quanto l’Europa unita tocchi nel profondo la nostra vita. E se gli inglesi lo avessero saputo, forse il referendum sarebbe andato diversamente.
Invece, ancora una volta, a vincere nelle urne sono stati pregiudizi e disinformazione. Un paio di dati per tutti: chi ha votato per andarsene, ritiene che il 20 per cento della popolazione sul suolo britannico sia costituito da immigrati dai paesi europei, in realtà è appena il 5; quattro elettori su 10 hanno dichiarato di non sapere che il parlamento europeo è eletto dai cittadini, e solo uno su venti ha saputo indicare il nome di un europarlamentare.
Ma gettare ogni colpa sul povero inglese medio, significa non cogliere il problema. Semmai, il disastro causato da Cameron chiamando gli inglesi alle urne può spingerci a sollevare un interrogativo che a qualcuno parrà politicamente scorretto, ma che a noi sembra invece ineludibile: davvero “dare la parola ai cittadini”, sempre e comunque, segna il trionfo della democrazia? Davvero questioni così delicate, complesse, destinate a segnare la vita delle future generazioni e forse gli stessi equilibri geopolitici del pianeta, si possono sbrogliare con un sì o un no a maggioranza?
Il voto per il leave è figlio dell’Inghilterra profonda, dei ceti popolari, degli anziani. C’è un elemento che tiene assieme questi mondi, ed è il desiderio di una vita più semplice.
Meno sottoposta agli stress della globalizzazione, radicata nei simboli e nei valori della tradizione, delimitata da orizzonti certi. Angusti magari, ma certi.
In tutto questo non c’è nulla di male. Sta alla politica, però, trovare il modo di far convivere gli sguardi proiettati al futuro con quelli ormai rivolti al passato, evitando che i timori dei nonni soffochino in un mortifero abbraccio i sogni dei nipoti.
Se i padri nobili dell’Europa, all’indomani di una guerra che aveva ridotto in macerie il nostro continente, avessero sottoposto il loro progetto agli elettori, con ogni probabilità ne avrebbero ricevuto in cambio un rifiuto plebiscitario.
E invece su quella catena di odio e di morte hanno saputo costruire le basi per un progetto politico lungimirante, a tratti utopico, che nonostante tutti i suoi limiti ci ha cambiato (in meglio) nel profondo.
Questo è il compito di una vera classe dirigente: condurre i paesi che a loro si sono affidati verso un futuro migliore, sfidando se necessario l’impopolarità e rischiando per un obiettivo più alto anche di perdere le elezioni. Di tutto questo non abbiamo visto traccia: né in un primo ministro più attento al suo futuro politico (comunque irrimediabilmente compromesso) che al bene del paese, né nei propagandisti della Brexit. E non la vediamo purtroppo nei loro epigoni francesi, olandesi, italiani, che spingono adesso per “ridare la parola ai cittadini” e “far trionfare la democrazia”.
Ora l’Europa ha bisogno di una ripartenza, magari a due velocità, in cui chi ci crede davvero possa avere un passo più spedito di chi non ha il coraggio di uno sguardo lungimirante, in nome magari di una falsa democrazia.
Quella vera, corre lungo i binari paralleli di due grandi responsabilità: degli elettori, quando scelgono il loro governo; e dei governi, quando scelgono il nostro futuro. A ciascuno il suo. Non ci sono alternative e non ci sono scorciatoie.
Al massimo, come insegna l’Inghilterra, ci sono bruschi risvegli e infiniti rimorsi ad attenderci.
Sul numero di domenica 3 luglio, quattro pagine di analisi del voto inglese e dei futuri scenari per l'Europa.