Dietro la Brexit le spinte emotive che solcano l’Europa. Bisogna ripensare l’Ue per evitare l’effetto-domino
L'economista Giovanni Ferri dell'università Lumsa di Roma segnala i rischi di una politica e di un elettorato che "pescano" nei malesseri diffusi e nel populismo dilagante. Il rischio di ricadute economiche e finanziarie. Le migrazioni? Un problema, ma anche un'opportunità per il Vecchio continente. Necessario trasformare il processo comunitario da "affare" riservato alle élite a movimento dei popoli.
Dopo i risultati del referendum inglese sulla Brexit, con le pesanti conseguenze subito registrate nelle borse di tutto il mondo, abbiamo intervistato Giovanni Ferri, ordinario di Economia politica all’università Lumsa di Roma e direttore del CeRBE (Center for Relationship Banking and Economics) sul valore dei “beni relazionali” in economia e finanza.
Qual è la sua impressione, a caldo, sull’esito del referendum in Gran Bretagna?
La Brexit è un esempio dello spirito dei tempi, cioè di una Europa in cui i popoli si stanno agitando sulla base di spinte emotive. L’Europa è a un bivio della sua storia in cui rischia di delimitarsi ulteriormente se si divide, e certamente quindi non è razionale una soluzione in cui si torna a entità nazionali, dopo lo sforzo fatto nei decenni per unificare il continente. Dobbiamo registrare un doppio problema nella Brexit. Il primo è, per così dire, “veniale”: gli inglesi hanno pesantemente plasmato l’Unione europea attuale.
L’espansione a est, che ci ha portato da 15 a 28 Paesi, non sarebbe avvenuta se non fosse stato per l’impegno politico forte degli inglesi, oltre che per l’interesse dei tedeschi. Quindi se io vado a casa di qualcuno e gli dico: “casa tua è casa mia”, le mettiamo in comunicazione e poi allarghiamo verso i vicini. E dopo che si è compiuto questo allargamento, chiudo – come fanno ora gli inglesi – la porta di casa… Non è bello!
E il secondo problema?
La cosa più importante è che per la prima volta si dimostra che concretamente è possibile per un Paese della Ue uscirne. E siccome a farlo non è la Grecia, che era stata bistrattata, ma il Regno Unito, sempre trattato coi guanti bianchi, la cosa fa riflettere due volte. Già vediamo che si sta muovendo la “pancia” di molti Paesi, e un po’ tutti rivendicano di poter dire la loro sull’appartenenza del loro Paese a una Europa che è rimasta orfana: è come se non ci fosse più un padre e una madre di questa Unione che ci ritroviamo.
A questo punto lei teme, come molti osservatori, l’“effetto domino”?
Effettivamente c’è il rischio che si scateni – tramite via referendaria – un effetto di imitazione, che da noi in Italia non può avvenire perché ce lo vieta la Costituzione, mentre in altri Paesi non è così e quindi il rischio è concreto.
Il risultato sarebbe quello di avere grandi potenze mondiali, come Usa, Cina, India, mentre l’Europa farebbe la fine dei famosi polli di Renzo Tramaglino che – come ci racconta il Manzoni – si beccavano per farsi del male mentre stavano andando al macello.
Una prospettiva pessimistica, la sua?
Direi realistica. Per dare un po’ di speranza, c’è da augurarsi che in risposta a questo shock che viene dalla Gran Bretagna, a Berlino, Francoforte e Bruxelles emerga una leadership all’altezza della situazione, che sappia parlare ai popoli europei e cancelli rapidamente quella percezione di un’Europa delle élite per diventare una Europa dei popoli. A questo riguardo mi pare fondamentale il ruolo dei giovani e della “generazione Erasmus”.
Uno dei motivi della Brexit sembra essere il timore “dell’invasione degli stranieri”. Lei come valuta questo aspetto?
Mi pare un timore esagerato. Del resto da noi ci sono anche i noti problemi di invecchiamento della popolazione e di tenuta del sistema previdenziale.
Certo si pongono problemi di integrazione e di identità dei popoli europei, ma dal punto di vista economico e finanziario l’arrivo degli immigrati appare come un fenomeno accettabile se non addirittura “necessario” per i Paesi europei.
Il punto è che tali dinamiche sarebbe meglio se venissero gestite a livello comunitario piuttosto che da parte di singoli Paesi. Un segno positivo, in questa direzione, è la decisione dei giorni scorsi di istituire una polizia di frontiera europea.
Con la crisi dei mercati finanziari dopo la Brexit dobbiamo preoccuparci?
È difficile dare giudizi, quello che è successo negli ultimi anni è che si affermato un sistema di scambi sempre più automatizzati, fatti dai computer con procedure automatiche e poco controllabili. Era inevitabile che dopo il referendum ci fosse un grosso scossone, però aspetterei alcuni giorni prima di esprimermi. Infatti, la grande turbolenza registrata la mattina di venerdì 24 giugno potrebbe rientrare abbastanza rapidamente. Diverso il discorso degli effetti sull’economia reale.
Le stime peggiori per la Gran Bretagna parlano di una perdita di 6 punti di Pil da qui al 2019 ma le conseguenze per l’Europa sarebbero molto inferiori. Per l’Italia, poi, che è poco integrata con il Regno Unito, vale lo stesso discorso in forma ulteriormente ridotta. Il vero problema verrebbe dalla destabilizzazione finanziaria unita a quella politica. Perché a quel punto la Gran Bretagna rischia di perdere la tripla A, come ha già detto Standards & Poors, e quindi c’è da aspettarsi un aumento dei tassi, insieme a una accresciuta volatilità. Potremmo assistere, così, a una terza puntata dopo la crisi della Lehman Brothers e poi della Grecia, con ripercussioni sui debiti sovrani europei.
Quindi l’Italia, col suo grande debito pubblico, corre più rischi di altri Paesi?
Una nota di conforto per noi è che l’Italia, grazie alla crescente integrazione economica e finanziaria, ha beneficato degli acquisti di titoli del debito pubblico da parte di soggetti stranieri. I tassi si sono abbassati e anche il famoso “spread”. Tenuto conto che il nostro Paese ha al proprio interno una ricchezza sufficiente per gestire il proprio debito, l’unico aspetto da considerare è che disponga di un governo e una maggioranza in grado di gestire una eventuale fase difficile. Mi spingo più in là, dicendo che anche se ci fosse un dissolvimento dell’Unione europea, l’Italia ce la farebbe a reggere a condizione di avere una guida politica all’altezza del compito.