Turchia: il Natale di Meral a due passi dalla tragedia di Aleppo
Sarà un Natale difficile da immaginare per noi, quello che trascorrerà Meral, nella sua Iskenderun, profonda Turchia, a 30 chilometri dalla frontiera con la Siria. Ma «la nascita e la presenza di Gesù – dice la mamma impegnata nelle fila della Caritas – sono la sconfitta dell’indifferenza e della morte. Possiamo aprirci al fratello grazie alla preghiera».
La voce di Meral sembra arrivare direttamente dall’occhio del ciclone. La sua Iskenderun (l’antica Alessandretta), dove vive con la famiglia, si trova nel sud della Turchia. La frontiera con la Siria dista appena 30 chilometri. La città di Aleppo - oggi simbolo della crudeltà dell’uomo e dell’incapacità della comunità internazionale di affrontare i conflitti mettendo la vita al primo posto – sorge a soli 140 chilometri: un’ora e mezza di macchina.
Meral è una delle poche migliaia di cristiani che vivono nella Turchia profonda, nel cuore del vicariato apostolico di Anatolia che comprende l’intera metà orientale della penisola ma conta appena otto parrocchie.
Qui la gente negli ultimi anni ha visto sorgere i grandi campi che nel tempo hanno ospitato il 45 per cento dei sei milioni di profughi siriani, come quello della poco lontana Suruc, dove gli sfollati sono stati anche 35 mila. La stessa Suruc dove nel luglio 2015 hanno perso la vita una trentina di giovani che stavano progettando aiuti per la ricostruzione di Kobane.
Per questo le parole di Meral, alla vigilia di Natale, assumono un’eco del tutto particolare.
«Essere cristiana per me è una fortuna!», testimonia onorando la vocazione eroica di essere cristiani in Medioriente, per stare alla definizione del patriarca emerito di Gerusalemme mons. Michel Sabbah.
«Gesù, la sua nascita e la sua presenza ha cambiato la mia vita e mi ha aiutato ad accorgermi del prossimo. Per me la sua nascita è di per sé la sconfitta dell’indifferenza e della morte». Ne è certa la donna, che divide le sue giornate tra lo studio della sociologia, l’assistenza ai più poveri attraverso la Caritas e l’educazione dei suoi due figli.
«Spesso mi ritrovo a pensare: che senso potrebbe avere la mia vita se non ci fosse lui? Credo che Dio padre abbia mandato suo figlio, “Agnello misericordioso”, per farci assaggiare il suo amore e il suo perdono. Per me Natale è questo».
E ha tutta l’apparenza di un frutto speciale del recente giubileo della misericordia. Un evento centrale per la chiesa cattolica; ma Meral, che frequenta la parrocchia in una terra in cui le chiese sorgono accanto alle moschee e alle sinagoghe, è un simbolo in sé stessa di ecumenismo. Figlia di padre ortodosso e di madre melchita (fedeli cattolici di rito bizantino e lingua araba, conosciuti anche come greco-cattolici) ha sperimentato fin dapprincipio che quando si è minoranza ciò che unisce conta molto di più di ciò che divide.
«Capisco che vivere il Natale in Europa è diverso dal viverlo in mezzo ai musulmani, specie in questi ultimi anni. Ma io penso che ciò che conta è vivere il Natale nel proprio cuore. Duemila anni fa “non c’era un posto per Lui”. Il rischio più grande è che anche oggi, a causa di tante appartenenze ideologiche, Dio fatichi a trovare spazio nel cuore dell’uomo».
Meral evoca così dei fenomeni, come l’allontanamento dalla fede, che non riguardano solo l’Occidente.
Anche a due passi da Antiochia, la città in cui per la prima volta venne pronunciato il nome cristiani per chi si metteva alla sequela di Gesù, la città da cui Paolo e Timoteo partirono per la loro missione, è la chiusura il maggior ostacolo nel dialogo tra l’uomo e Dio. «L’individualismo e l’egoismo conducono alla morte e alle tenebre. La preghiera invece ci conduce all’amore e ai fratelli».
(ha collaborato mons. Paolo Bizzeti)