I cristiani del Medio Oriente aspettano le prime mosse del presidente Trump
I cambiamenti in politica estera sbandierati dal nuovo presidente Usa, Donald Trump, durante la sua campagna elettorale, lascerebbero presagire un nuovo atteggiamento americano nello scacchiere mediorientale, attraversato da conflitti irrisolti, quello israelo-palestinese, da guerre in corso in Siria e Iraq, dalla violenza aberrante del terrorismo dello Stato Islamico, come anche da tensioni legate ad attori regionali, Turchia e Iran, e a superpotenze come la Russia. La speranza della minoranza cristiana è che questo nuovo corso porti alla sconfitta dell'Isis e al ristabilimento della sicurezza, della stabilità politica e del diritto. L'attesa adesso è per le prime mosse del Tycoon americano
È stata un’elezione inattesa, quella di Donald Trump, il tycoon americano, alla presidenza degli Stati Uniti d’America. Battuta la democratica Hillary Clinton, sono in tanti adesso a chiedersi cosa farà il neo presidente soprattutto in politica estera, un campo sul quale è difficile fare previsioni, data anche la sua mancanza di esperienza. Di certo il motto, “Make America great again”, ha chiaramente fatto intendere che ogni futuro impegno americano all’estero non avrà altro fine che l’interesse nazionale. Uno dei banchi di prova più attesi per il nuovo presidente sarà il Medio Oriente, regione che ha sempre visto un forte coinvolgimento americano. Nei suoi comizi come in molte interviste concesse nel corso della sua campagna elettorale, Trump ha tratteggiato il suo pensiero circa i futuri assetti di questa regione attraversata dal conflitto israelo-palestinese, dalla guerra in Siria e in Iraq, dalle migrazioni da questi due Paesi, dalla presenza dello Stato Islamico, e da relazioni complicate con Turchia e Iran.
Sul conflitto israelo-palestinese Trump ha ribadito la sua intenzione di rilanciare il negoziato di pace ormai fermo ma ha anche affermato di voler spostare l’ambasciata americana a Gerusalemme. Ovvia la soddisfazione israeliana cui hanno fatto da contrappeso i giudizi discordanti dei palestinesi, anche se il loro responsabile per i negoziati, Saeb Erekat, ha espresso un certo ottimismo, se non altro perché
“il primo a parlare di uno Stato palestinese è stato il presidente George W. Bush, questione che ora potrebbe essere ereditata dal partito repubblicano”.
Altro nodo per Trump sarà l’accordo sul nucleare iraniano, voluto da Obama, e da lui sempre osteggiato. Il tycoon ne ha promesso lo smantellamento. Chiara la volontà di bloccare il tentativo iraniano di imporsi come importante attore regionale. Resta da capire come raggiungere lo scopo visto anche che l’Iran è uno degli alleati della Russia di Putin (che Trump intenderebbe riavvicinare) nella guerra in Siria e all’Isis. Nell’azione di contrasto ai terroristi dello Stato islamico il nuovo presidente Usa ha dato la sua disponibilità a stringere alleanze con Putin allentando la morsa su Assad. Critico anche sull’offensiva su Mosul che, a sua detta, porta vantaggi solo all’Iran. A beneficiare del riavvicinamento tra Usa e Russia potrebbero essere l’Egitto, di Abdel Fattah al-Sisi, e la Turchia di Erdogan, che sta vivendo un momento di disgelo con Mosca. Resta il nodo curdo. Intenzione di Trump è quella di sostenere i peshmerga contro lo Stato Islamico. Scelta non gradita ad Ankara.
Ma a guardare a Trump sono anche le minoranze cristiane, e non, della Regione. Costrette a fuggire dallo Stato islamico, in mezzo alle lotte settarie, la speranza è di vedere stabilità e sicurezza nei propri Paesi. Per il Segretario di Stato di Sua Santità, card. Pietro Parolin la situazione in Medio Oriente “è drammatica e ha bisogno di trovare una via di uscita. È troppo tempo che la Siria è in preda al conflitto.
Si spera che con questi cambiamenti che ci sono stati con il voto negli Usa si trovi quella soluzione negoziata che sempre la Santa Sede ha invocato.
Non c’è possibilità di risolvere la crisi siriana attraverso le armi. Invochiamo una soluzione negoziata”. “Tutti quelli che sono eletti per guidare un Paese sono chiamati a cercare la cosa migliore per i loro cittadini – sono parole del card. Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali –
che cosa è migliore, per gli Usa, se non di essere garanti di pace, progresso e democrazia, di aiuto a chi ha bisogno, specie le vittime del terrorismo, a chi è costretto ad emigrare dai propri Paesi? Spero che questa realtà sia di ispirazione per i vecchi e nuovi dirigenti del mondo Occidentale.
Un’alleanza Trump-Putin contro il terrorismo? È una responsabilità che riguarda chi ha in mano il governo dei Paesi, non certo i capi religiosi”.
Chi aspetta di vedere le prime mosse americane è anche l’amministratore apostolico del Patriarcato Latino di Gerusalemme, mons. Pierbattista Pizzaballa. “La situazione israelo-palestinese avrà bisogno di molto tempo per riprendere il cammino. La comunità internazionale e gli Usa da soli non possono smuovere la situazione se in Terra Santa israeliani e palestinesi non hanno la volontà di farlo. Non vedo all’orizzonte – ma spero di sbagliare – elementi che possano far pensare a un cambiamento immediato”.
“Non siamo politici ma ci interessiamo della ‘polis’ della città. Preghiamo per Trump e per il mondo perché diventi regno di giustizia e di pace.
Il nuovo presidente ascolti la voce della Chiesa e di papa Francesco.
Basta con la guerra. Un mondo senza Dio è un mondo di guerra. Spero che Trump sia con la pace”, è stata la reazione del patriarca melkita, Gregorios III Laham. I cittadini americani, ha detto il patriarca caldeo Louis Raphael Sako, hanno mostrato tutta “la loro stanchezza verso guerre non giustificate, morti, violenze e distruzione”. La speranza “è che vi possa essere un cambiamento in un’ottica di pace e stabilità”. Dopo questo voto in Iraq prevale un sentimento di “soddisfazione” che però “non ha spazzato via il clima di paura”.