Mobile, edilizia, cemento in crisi. Bassa Padovana, si chiude per sempre?
L’annunciata chiusura della Cementizillo di Este non è che l’ultima tegola per un'area in crisi profonda. Che cosa è successo? Dove si è interrotto un percorso di crescita che – pur tra mille contraddizioni, pur tra molti lati oscuri e per quanto inferiore al dinamismo delle aree più avanzate della provincia – aveva comunque trasformato profondamente la Bassa Padovana? La crisi, da sola, non basta a giustificare la mancanza di scelte lungimiranti che ha segnato gli ultimi anni.
L’annunciata chiusura della Cementizillo di Este non è che l’ultima tegola per un'area in crisi profonda. Lo hanno ricordato i sindacati incontrando i parlamentari del territorio per sollecitare un forte impegno a tutela dei lavoratori colpiti dai licenziamenti, per i quali non sarà facile trovare una ricollocazione.
Nella Bassa Padovana tutta la filiera dell’edilizia è in forte crisi, con oltre il 13 per cento delle aziende che ha chiuso negli ultimi anni a fronte di una media provinciale del 9,8. Ancora peggio va al distretto del mobile, dove tra il 2009 e lo scorso settembre quasi il 40 per cento delle aziende ha chiuso i battenti.
Tra le proposte concrete avanzate, è stata anche ventilata la possibilità di un prolungamento degli ammortizzatori sociali, in deroga a quanto prevede il Jobs act. Una strada praticabile se la Bassa Padovana sarà inserita tra le cosiddette “Aree di crisi industriale non complessa”, una fattispecie prevista dalla legge ma demandata a un apposito decreto che ancora non è stato adottato. Per questo nei giorni scorsi alcuni deputati padovani hanno depositato un’interrogazione al ministero dello sviluppo chiedendo tempi brevi nell’iter legislativo.
Fare sistema, scelta obbligata
I dati fotografano una realtà sempre più difficile, a cui concorrono diversi fattori. Ci sono ragioni storiche, ci sono problemi infrastrutturali, c’è naturalmente il peso della crisi che ha mietuto e continua a mietere le sue vittime, alla faccia di chi vede in qualche decimale di punto il segno che l’Italia è tornata a crescere.
Sono tutti elementi che vanno presi nella giusta considerazione, per evitare condanne affrettate e superficiali. Ma, per quanto importanti siano, non bastano a spiegare né il veloce declino che ha segnato gli ultimi anni né, soprattutto, quel misto di sorpresa e sgomento, quella paralizzante sensazione di impotenza che vediamo oggi attraversare le comunità.
Che cosa è successo?
Dove si è interrotto un percorso di crescita che – pur tra mille contraddizioni, pur tra molti lati oscuri e per quanto inferiore al dinamismo delle aree più avanzate della provincia – aveva comunque trasformato profondamente la Bassa Padovana?
Se la crisi del cemento è un dato strutturale in tutta Italia, altrove l’edilizia sta trovando nuovo slancio dopo anni di durissima crisi, puntando sulle ristrutturazioni e l’efficienza energetica.
Altri distretti del mobile, a differenza di quello di Casale, hanno saputo riqualificarsi e rilanciarsi grazie agli investimenti in design e all’export.
Per non parlare del turismo, che in questi anni ha visto crescere le proposte legate al vino, all’eccellenza alimentare, alla qualità ambientale di territori prima ai margini dei grandi flussi.
Fatte salve poche eccezioni, tutto questo nella Bassa Padovana non è successo. Perché?
Proviamo ad abbozzare una risposta, pur nella consapevolezza che le soluzioni facili appartengono solo al mondo dei sogni.
L’arrivo della crisi ha trovato un territorio incapace di reagire perché negli anni della crescita ha investito poco in formazione delle giovani generazioni; perché segnato da un calo demografico e da un progressivo invecchiamento che mal si conciliano con la voglia di rischiare; ma, soprattutto, perché incapace di “fare sistema”. Di pensarsi, in altre parole, come un insieme di comunità i cui destini sono intrecciati e il cui futuro va disegnato assieme.
Non è un caso che i sindacati spieghino che sarà possibile salvare il salvabile solo se «tutti faranno squadra». Ma quello che oggi è un grido disperato, sarebbe dovuto diventare molti anni fa lo slogan, l’obiettivo predicato (e praticato) dalla classe politica, dalle associazioni di categoria, dai sindacati, dal mondo culturale e associativo.
Gli ultimi decenni sono stati invece costellati di fallimenti: le unioni di comuni paralizzate dai litigi e in qualche caso messe in liquidazione; il distretto del mobile incapace di costruire il benché minimo simulacro di collaborazione tra le aziende che offrisse le dimensioni necessarie a rinnovare i prodotti e penetrare i nuovi mercati; una strategia turistica basata sul piccolo orticello di casa (per chi se la poteva permettere) invece che sulla promozione integrata di un territorio che dall’Adige ai Colli vanta risorse ambientali, storiche e artistiche di straordinario interesse.
Non si è capito che la crisi da un lato, la globalizzazione dall’altro, hanno cambiato le regole del gioco.
Oggi la sfida non si gioca più tra singoli comuni ma tra aree omogenee, che investono assieme in mobilità, educazione, qualità ambientale. Che sanno catalizzare investimenti e sanno proporsi come luoghi in cui “è bello vivere”. Che sanno porre le premesse per uno sviluppo economico armonico e non più lasciato all’intuizione del singolo o guidato dall’estemporaneità, segnato dalla condivisione tra parti sociali e non dalla conflittualità che ha registrato – ultimo esempio in ordine di tempo – la crisi dei cementifici.
Perché “piccolo è bello” e sostenibile solo nella misura in cui inserito in un contenitore di dimensioni adeguate a reggere una competizione che fa perno oggi sulla qualità, non sulla quantità a basso costo.
Certo, la mancanza di una città che possa fare da catalizzatore per l’intero territorio è un handicap.
Ma altrove, si veda l’Alta Padovana, questo non ha fermato la crescita, tutt’altro: è diventata l’occasione per ripensare, alla pari, le dinamiche e le relazioni tra le comunità fino a sfociare in un progetto condiviso che sta portando benefici a tutti.
La Bassa Padovana non ha saputo invece fare sintesi e oggi, frammentata com’è in 46 comuni di esigue dimensioni, assiste inerme al tracollo.
Inutile rimpiangere il tempo sprecato. Meglio affrontare lo shock e domandarsi, tutti insieme: cosa vogliamo che sia questo territorio, così importante per la nostra provincia, tra vent’anni?
E cosa dobbiamo fare – oggi, non domani, costruendo strategie di lungo termine e non risposte emergenziali – perché tra vent’anni questo progetto sia diventato realtà? Come si ridisegna un territorio, a partire dalla mappa dei suoi comuni, perché possa diventare attrattivo?
Qui si gioca la responsabilità di tutte le parti sociali, non nella difesa a oltranza di posti di lavoro che sono ormai parte del passato. Servono più coraggio e meno campanili.
Serve fantasia, e servono prima ancora criteri e valori nuovi: perché abbiamo già, dolorosamente, verificato che legare la promessa di sviluppo a un’autostrada, o a un centro commerciale, o a nuovo cemento, non ci fa fare un solo passo nella giusta direzione.