Dalla pace alla “vittoria”: l’eterogenesi dei fini in una guerra che cambia. Nota geopolitica
La cronicizzazione della guerra in Ucraina inizia a manifestare le ripercussioni già in esordio paventate.
È in atto un certo slittamento lessicale nella rappresentazione del conflitto in Ucraina. Sul termine “pace” guadagna sempre più terreno la parola “vittoria”. Le forniture militari promesse a oltranza da Biden e Johnson, assieme al supporto logistico e tattico nell’indicare i bersagli e le manovre sul campo, intendono fiaccare la Russia per provocarne la sconfitta. Così non stupisce se Stoltenberg interviene per rettificare le aperture di Zelensky sull’ipotesi negoziale in merito alla Crimea. Ma la definizione di “vittoria” manca di contenuto preciso, a meno di non riferirlo a un indebolimento sistemico, politico, militare ed economico, della Russia. Al che sarebbe funzionale il prolungamento di un conflitto che, sin da subito, Biden preannunciava sufficientemente lungo. In effetti, taluni analisti intravedono una nuova fase della guerra, con le forze russe intente a erodere lembi di territorio a sud attestandosi su una difesa contenitiva anziché puntare allo sfondamento espansivo.
Parrebbero le premesse a un conflitto di lunga durata, che solitamente subisce arresti subitanei solo a seguito di “traumi sistemici di svolta” come un crollo economico, un intervento bellico esterno o una caduta di regime. Sta di fatto che gli shock non garantiscono sempre processi de-escalativi irreversibili, specie se non spezzano l’assuefazione allo stress bellico sviluppata assieme alla capacità di anticipare i traumi con super-escalation preventive o di comprimere i tempi di reazione, giocandosi tutto per tutto, con una resilienza commisurata alle aspettative di riscatto riservandosi il differimento o la dislocazione della risposta.
Comunque sia, la cronicizzazione della guerra inizia a manifestare le ripercussioni già in esordio paventate. Crescono gli allarmi per le crisi alimentari minacciate dal blocco del grano ucraino, con silos incapaci di accogliere il nuovo raccolto. Anche altri Paesi cerealicoli varano di misure di razionamento delle esportazioni per il controllo dei prezzi. Ciò fa temere l’esplosione diffusa di “rivolte del pane” da cui, per eterogenesi dei fini, possono sortire boomerang destabilizzanti non certo desiderati dai nemici della Russia. Nel silenzio giornalistico, lo Sri Lanka è percorso da moti di insurrezione antigovernativa. Già afflitto dalle ricadute della pandemia sul turismo e dalla carenza di prodotti agricoli dovuta al bando dei fertilizzanti chimici, il Paese si espone a un’instabilità da cui la Cina potrà trarre profitto, facendo valere l’insolvenza debitoria per governare le infrastrutture portuali dell’isola, aggiungendo un tassello al progetto di promuoversi a potenza navale sfidando il dominio marittimo statunitense. A maggior ragione ora, se – per ulteriore eterogenesi dei fini – il transito terrestre delle Nuove Vie della Seta risulterà ostruito dall’isolamento russo verso ovest. Ma la Cina si predispone ad approfittare anche dei contesti asiatici (Armenia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, ecc.) e africani (Mali, Mozambico, Madagascar, Eritrea, Sael, ecc.) legati a Mosca: se eccessivamente logorata, Pechino potrà surrogarsi a quest’ultima come riferimento economico e militare.
Sul versante energetico, il blocco del gasdotto transitante nel Donbass (per cui passa 1/3 del flusso destinato all’Europa) deciso da Kiev a causa delle operazioni di guerra impone alla Russia di trovare soluzioni alternative per rispettare i contratti di fornitura. Eppure ciò non ha impedito di chiudere il rubinetto del tratto Yamal verso la Polonia, che rifiuta il pagamento in rubli e impedisce a Gazprom di esercitare il proprio status di azionista comproprietario con Europol Gaz del segmento polacco. Il rapido aumento dei prezzi affligge Varsavia solo in parte, stanti la sua prevalente carbodipendenza e gli investimenti nel nucleare in collaborazione con società statunitensi. Se la riduzione dei flussi dovesse verificarsi altrove, tutt’altro impatto si avrebbe in Paesi come Germania e Italia, sinora inottemperanti alle pressioni con cui Washington, dagli anni ’90, invita a diversificare gli approvvigionamenti da fonte russa. Il nostro governo si sta mostrando particolarmente attivo nell’utilizzare le partnership dell’Eni come vettori per incrementare il gas via tubo da Algeria e Azerbaigian nel breve termine (2-3 anni in assenza di gasdotti congrui), in aggiunta al gas liquefatto atteso da Usa, Nigeria, Congo e Qatar. Tuttavia i risvolti polacchi inducono Roma a insistere sulla necessità in Ue di porre un tetto al prezzo, per via della riconversione tecnologica imposta dalla distribuzione del gnl, da trattare, trasportare e conservare a bassissime temperature, con costi che minacciano la competitività nell’export di una produzione manifatturiera tarata sul prezzario delle forniture russe. Oltretutto, rilevare che l’Algeria potrebbe non soddisfare la nostra domanda, dovendo stoccare per il crescente consumo interno, genera ansia quanto scoprire che l’economia russa, messa alle corde, intende giocare d’anticipo. Mosca, infatti, programma investimenti in Siberia orientale per realizzare impianti di gnl, così da liquefare e dirottare a est il gas estratto per l’Europa, specialmente verso la Cina, che già beneficia degli sconti sul petrolio non più acquistato a ovest.
Al di là della retorica sulla compattezza, in Occidente non si scandisce all’unisono la marcia della “vittoria” neanche per l’ingresso nella Nato di Finlandia e Svezia: altra eterogenesi dei fini di un allargamento a nord del confine russo con l’Europa, prodotto dal timore nell’aggressività del Cremlino contro l’incipiente espansione atlantista a sud. Erdogan ha già espresso contrarietà, addebitando ai Paesi scandinavi l’indulgenza verso il terrorismo dei separatisti curdi. È possibile che si tratti di una mossa per vantare crediti e ottenere, in cambio del benestare, mano libera negli scenari che impegnano la Turchia. Ma dietro Ankara si celano gli scarsi entusiasmi di altri governi, impensieriti dalle rappresaglie russe. Mosca potrebbe reagire in modi e tempi vari all’esposizione delle rotte baltiche per San Pietroburgo e Kaliningrad a un blocco navale de facto, vedendo inoltre precluso il controllo sulla navigazione artica, ambito anche dagli Usa per gestire una via breve dei traffici est-ovest resa più agevole dal riscaldamento globale.
Silente l’Ungheria, si rileva il veto annunciato del presidente croato Milanovich, che rivendica un’effettiva rappresentanza politica a Sarajevo per i croato-bosniaci. Quantunque pretestuosa, l’opposizione merita attenzione nei punti ove eccepisce l’inopportunità di aprire un altro fronte caldo all’esterno ignorando ulteriori priorità interne dell’agenda euroatlantica: il completo riconoscimento del Kosovo, l’integrazione Ue di Macedonia del Nord e Albania, l’inclusione di Romania e Bulgaria nello spazio Schengen. Il tutto mentre si attivano le agitazioni russofile che complicano l’europeizzazione di Stati come la Georgia (la repubblica separatista dell’Ossezia del Sud terrà a luglio il referendum per l’annessione alla Federazione russa) la Moldavia (dove crescono le rimostranze contro l’occidentalismo del governo) e la Bosnia Erzegovina (viste le fibrillazioni dei serbo-bosniaci).
Nulla a che vedere, ovviamente, con la preoccupazione espressa da Pechino per l’estensione militare dell’anglosfera, confessata dall’auspicio di Johnson per una Nato globale dall’Atlantico al Pacifico. Eppure certe posizioni suggeriscono la presenza di possibili disallineamenti rispetto alle promesse di “vittoria” articolate da Washington: avvisi prudenziali che attendono di emergere con più nerbo nella scia di attori influenti. Tra essi, un candidato potrebbe essere Macron, che non a caso ha scelto di recarsi in visita in Germania, subito dopo la rielezione, rispolverando l’asse Parigi-Berlino. Mentre von der Leyen e Draghi si esprimono contro il meccanismo dell’unanimità nel Consiglio Ue, il presidente francese, pur sottoscrivendo, potrebbe voler contenere l’influenza dei membri (odierni e futuri) dell’est, americanisti per vocazione ed europeisti per necessità. La ponderazione lungimirante promossa dal suo discorso alla Conferenza sul Futuro dell’Europa del 9 maggio scorso a Strasburgo riporta alla mente i guasti dell’eterogenesi dei fini scaturita dalla volontà di mettere in ginocchio la Germania nel 1919. Se sia stata la lezione della storia a ispirare Macron non è dato sapere, ciò che conta è il contenuto – impegnativa per tutti governi europei – del monito: il “dovere di non cedere alla tentazione dell’umiliazione e dello spirito di vendetta”.
Giuseppe Casale*
*Pontificia università lateranense