Aquila e Priscilla. L’amore umano trova compimento e finitezza nel Signore

La dimensione famigliare connota la testimonianza degli sposi che con l’amore della loro stessa unione si presentano come testimoni credibili dell’amore di Dio.

Aquila e Priscilla. L’amore umano trova compimento e finitezza nel Signore

Negli Atti degli Apostoli, veniamo a conoscenza di una coppia di sposi, Aquila e Priscilla, che possiamo a buon diritto considerare la prima famiglia cristiana di cui ci vengano fornite notizie dirette. Aquila è un giudeo, originario del Ponto, sua moglie Priscilla, o Prisca, ha un nome romano ed in effetti il testo dice che si sono stabiliti a Corinto, poco prima dell’arrivo di Paolo, avendo lasciato l’Italia in seguito all’ordine di Claudio che allontanava da Roma tutti i Giudei, ovvero nel 49 o 50 d.C. (At 18, 2). In occasione della sua prima visita alla grande città greca di Corinto, l’apostolo Paolo viene accolto da questa coppia di sposi ed è qui che apprendiamo quale sia il lavoro che li accomuna, quello di fabbricanti di tende (At 18,3). In tanti altri passi (At 20, 34-35; 1Cor 4, 12; 2Cor 11, 27; 1Ts 2,9; 2Ts 3,8) Paolo rimarca il fatto che egli si guadagna il pane con il lavoro delle sue mani e non approfitta dell’ospitalità dei fratelli dedicandosi solo alla predicazione. Quella che si instaura con Aquila e Priscilla è quindi prima un’amicizia, poi una collaborazione professionale, ma soprattutto una condivisione nella fede. Sappiamo che proprio in casa loro si riuniva la comunità di Corinzi che seguivano “la Via” e a cui poi Paolo indirizzerà le sue lettere (1 Cor 16,19). Anche il memoriale eucaristico avveniva verosimilmente nelle abitazioni private e mai come allora si poteva parlare delle famiglie come “chiese domestiche”. Fare gli onori di casa, in tale contesto, era già di per sé una grande testimonianza, anche in luoghi in cui non fosse necessariamente vietato il culto. Se anche non si andava incontro al martirio, si era testimoni con una professione di fede, allora come oggi, “rivoluzionaria” che poteva destare sospetto o perplessità in città in cui si sovrapponevano religioni e appartenenze molto differenti fra loro. Pensiamo, per fare solo un esempio, alla reazione di disinteresse e derisione che ebbero gli Ateniesi quando Paolo parlò loro all’Areopago della resurrezione di Gesù (At 17, 16-34). Ma, anche nella vita quotidiana, lo stesso mettere tutto in comune non era certo una prassi usuale e comportava un radicale cambio di mentalità. Non sappiamo se Aquila e Priscilla avessero dei figli, non sono mai nominati, ma a prescindere dal dato storico, per noi è importante concentrare l’attenzione sulla coppia e su come evidentemente vivesse il matrimonio come strettamente intrecciato al credere in Gesù. Essi sono disposti a viaggiare, lasciano Corinto per Efeso, partendo con Paolo (At 18, 18-19) e nella nuova città assumono pienamente la responsabilità di missionari, restando uniti. Qui, infatti si dice che prima ascoltarono Apollo, un giudeo nativo di Alessandria che conosceva le Scritture e parlava di Gesù ma conosceva solo il battesimo di Giovanni “e poi lo presero con sé e gli esposero con maggiore accuratezza la via di Dio”. (At 18, 24-27) C’è in nuce proprio un percorso di catechesi non teorica, ma fatto di disponibilità all’ascolto, all’accoglienza, alla condivisione di vita e solo in un secondo momento alla trasmissione della dottrina. La dimensione famigliare connota la testimonianza degli sposi che con l’amore della loro stessa unione si presentano come testimoni credibili dell’amore di Dio. Probabilmente i due coniugi ospitarono ancora per tre anni Paolo a Corinto nel suo terzo viaggio, poi possiamo ricostruire che lasciarono Efeso per Roma dopo la sommossa provocata dall’argentiere Demetrio (At 19, 24-41) e anche a Roma si riuniva una comunità cristiana in casa loro (Rm 16, 3-5). Fino a quando a causa della persecuzione di Nerone ritornarono un’altra volta ad Efeso (2Tim 4, 19). Portando i saluti alla comunità di Roma, Paolo li definisce “miei collaboratori in Cristo Gesù” e aggiunge: “Essi per salvarmi la vita hanno rischiato la loro testa, e a loro non io soltanto sono grato, ma tutte le Chiese del mondo pagano” (Rm 16, 3-4). È con questa stessa gratitudine che noi oggi possiamo guardare a questi sposi, perché essi hanno proprio saputo aprire le porte di casa, essere pellegrini, non chiudersi nel quieto vivere o nella tranquillità di una sistemazione permanente, ma partire e ricominciare più volte, offrendo le loro vite in tempi in cui ogni viaggio poteva essere fatale e sfidando i pericoli delle stesse persecuzioni. In loro noi contempliamo come l’amore umano trovi compimento e pienezza nel Signore e non vi sia soluzione di continuità. Essi non avevano visto e ascoltato Gesù di persona, proprio come noi, ma si sono fidati di quella Parola di vita che spinta dallo Spirito Santo e sulle gambe degli apostoli era giunta fino a loro. Bello poterli annoverare come sposi santi a cui affidare anche le intenzioni per le nostre famiglie affinché siano sempre animate dallo stesso coraggio di annunciare il Vangelo e viverlo giorno per giorno fra gli uomini nel mondo.

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Fonte: Sir