Nella promessa della Risurrezione. L'associazione Figli in cielo a Padova mette insieme i genitori che hanno perduto i figli
L’associazione Figli in cielo a Padova mette insieme la sofferenza, il dramma e le domande profonde di una ventina di genitori che hanno perduto i figli, ma che non si rassegnano di fronte alla morte, con tutta la fatica della fede
«Non siamo qui per cercare la morte, ma per incontrare la risurrezione». Stanno seduti intorno a mezza corona e tra le spine del cuore ci sono colori che brillano con un’intensità autentica, gemme preziose, insostituibili, rese rare da una sofferenza provata, vissuta, attraversata istante per istante a causa del lutto. Si raccontano sommessamente a vicenda l’ultimo periodo trascorso, la vita di ogni giorno, le visite dal medico, il Covid; poi lasciano spazio alla preghiera e si osservano in silenzio da lontano, scrutando dentro gli occhi a che punto sia il dolore, se abbia lasciato posto a quella poca serenità in più, utile per vivere più lievi.
È il loro modo di prendersi cura l’uno dell’altro, con rispetto e riservatezza, in questa “scuola di fede e preghiera” che è l’associazione Figli in cielo, nata a Padova, in diocesi, nel 2005 alla cui guida oggi c’è Paola Negro e don Giovanni Brusegan è l’assistente spirituale. Sono una ventina di genitori che hanno perduto, spesso drammaticamente, un figlio o una figlia. Non esiste un termine per definirli, perché è innaturale la condizione di sopravvivere a colui che si è generato: veder morire la carne della propria carne, il sangue del proprio sangue è l’esperienza più straziante che una vita sia costretta a subire. Sono coppie di sposi, o solo madri o solo padri, che provano il desiderio di fermarsi davanti a Cristo, nonostante siano consapevoli che tanti interrogativi non troveranno risposta in questa esistenza. Vivono la loro personale Via crucis con il peso di una sofferenza indicibile sulle spalle e il desiderio nel cuore di trovare un significato che illumini ciò che rimane.
Frequentano l’incontro ogni terzo sabato del mese, come in tutte le altre sezioni disseminate in Italia in spirito di comunione: si parte ogni volta dalla riflessione di Andreana Bassanetti e poi si prosegue con l’approfondimento e il confronto reciproco intorno alla Parola. Il percorso spirituale di quest’anno è incentrato sul Credo. «Tutti noi sappiamo bene quanto la morte di nostro figlio ha sconvolto la nostra vita – scriveva Bassanetti per l’incontro di Quaresima – Quanto ha cambiato i rapporti in famiglia, con gli amici, sul lavoro. Ha capovolto la nostra scala di valori, il nostro modo di pensare, di sentire, di vedere le cose. Ma non basta, dice Gesù. È indispensabile che il cambiamento avvenga nella direzione che Lui stesso ha tracciato con la sua passione, morte, risurrezione».
È un luogo di lacrime e crescita l’associazione, dove l’esperienza dell’assenza viene messa a nudo, lentamente, senza paura di essere giudicati anche quando il grido «Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?» è più forte di ogni consolazione, perché chi ti sta di fronte sta salendo lo stesso calvario o, forse, è fermo a metà strada e non riesce più a mettere un piede davanti all’altro. C’è un sottile filo che tiene questi genitori insieme da anni: la speranza di ritrovarli un giorno quei figli perduti, caduti troppo giovani, come foglie staccate all’improvviso da un soffio di vento crudele. Hanno lo stesso volto di Maria ai piedi della Croce queste mamme e questi papà. Non potrai mai sapere cosa veramente custodiscono nel cuore, parlano con il silenzio delle lacrime, ma a volte trovano, chissà come, il coraggio di rompere il peso della disperazione che si portano dentro per lasciarla andare.
«Dio ci sta accanto – narra con inconfondibile determinazione interiore don Giovanni Brusegan – Non è lui il motore della sofferenza umana; questa è una visione meccanicistica della fede che non funziona. Anche Lui ha le mani incatenate come noi… altrimenti ridurrebbe la nostra storia a un trucco, a una banale farsa. Qui dentro il dolore è una lingua comune, mentre per altri fuori la vita è ancora quella delle cicale, perché non l’hanno ancora toccata nell’essenza. Qui si soffre, si ritorna sulla piaga, ma si respira la consolazione». Ci si passa la corda, nessuno la lascia, perché sa qual è la meta: Cristo, nello splendore della Risurrezione, è lì ad attenderli insieme ai loro amati “bambini” di cui parlano come se fossero ancora qui. «Andreana era atea come me – è la voce carezzevole di Rossella a rompere gli indugi – ma sono entrata in una dimensione di fede più ampia quando Anna è morta a quasi 16 anni per un incidente. Sento che devo nutrire la volontà di togliermi i calzari per liberarmi da tutto ciò che compromette la visione corretta di Dio, a volte anche dal dolore stesso, perché diventa pericoloso perdersi e crogiolarsi nella sofferenza, sebbene non passerà mai...». Avere un luogo sicuro a cui approdare è confortante, aiuta ad andare avanti, a non fermarsi: «Nella condivisione tutto diventa più sopportabile: questo è il luogo della follia dove si può dire tutto, senza sentirsi additati». «Agli incontri sono sempre venuta solo io, mio marito non ha mai voluto. Eppure mi raccontavano che, tutti i giorni quando andava in campagna, dopo aver vangato la terra, si metteva a sedere sotto l’albero e piangeva per ore». Sei anni fa Maria ha salutato per l’ultima volta Walter a 34 anni per un linfoma non Hodgkin.
«Io qui sto bene: siamo tutti in viaggio, ognuno al suo punto. La vita ci chiede di camminare insieme, aspettare, rispettare. Trovo consolazione nel contemplare la Croce, Maria mi guida, e sento pace quando sto in ginocchio in adorazione dell’eucaristia: lì riconosco la strada e, anche se la smarrisco e mi fermo spesso, la ritrovo ogni volta. Ho due nipotini, vivo per loro…». Il dolore cambia intensità con il tempo che si dice lenisca anche le ferite più profonde, «ma io ho mio figlio sempre nella testa» riesce a sussurrare Maria Luisa. Nel 2000 Edoardo ha avuto un arresto cardiaco a soli 22 anni. Ilaria aveva la stessa età, quando ha scelto di togliersi la vita nel 2005: «È ancora difficile da accettare e pronunciare», Rosanna non riesce più ad andare avanti, almeno con le parole. Le viene in soccorso Renata che ne sa quanto, forse più di lei, in materia di disperazione: «Sono mamma di quattro figli, di cui due gemelle. Claudia è morta suicida a vent’anni nel 2004, dopo quindici anni Giulia ha scelto lo stesso destino, volando dal punto più alto che ha trovato. A mio marito è stato risparmiato questo secondo strazio perché se n’è andato prima. Ho passato anni a chiedermi “perché” dopo il gesto di Claudia. Cosa vuole dirmi Dio? Cosa posso io rispondergli? Ora non smetto di interrogarmi, anche se i miei nipoti restano la mia ancora di salvezza».
«Andrea stava preparando la tesi di laurea, era un ragazzo splendido, un’anima d’oro, e io dicevo spesso a mio marito: “È troppo perfetto, ho paura che gli accada qualcosa…” ed è per questo che ce l’ho ancora adesso con il Cielo!». Adriana non nasconde la rabbia, ma come altri ha riconosciuto ugualmente una via d’uscita alla morsa provocata dal dramma della perdita: «La vita mi ha donato tre nipoti splendidi che sono la mia gioia». Con tutta la sua semplicità di mamma e con gli occhi gonfi, Ivana si fa forza con un fil di voce: «Valerio aveva 38 anni quando ha avuto un arresto cardiocircolatorio per una malattia rara che non sapeva di avere. E ora suo fratello ha già avuto due infarti per lo stesso motivo…». Lei si aggrappa agli altri con gli occhi, e resta in silenzio. A volte il dolore si trasforma per quanto le domande non vadano via e l’angoscia continui a ferire il cuore, lo faccia sanguinare ogni giorno: «Nicola non è più tornato con la sua amata moto – racconta a fatica Vanna, insieme a Roberto – In maggio saranno 22 anni, ma è come se fosse ieri.Nostra figlia è stata splendida: ci ha accompagnato per tanto tempo, voleva che parlassimo sempre di Nicola poi, com’è giusto che sia, ha chiesto di lasciarci andare per riprendere la sua vita. Gliene saremo sempre grati».
L’azienda di famiglia era tutto per Nicola e il suo papà, non c’era ostacolo che non venisse superato dall’esperienza dell’uno e dalle competenze dell’altro messe assieme: «La portavamo avanti con orgoglio e non mi do pace e sono arrabbiato con Dio… Se io e Nicola prima ci capivamo anche senza parlarci, ora perché lui non torna da me in qualche modo? Perché non riesce a mettersi in contatto con me?». Luca si è spento come una candela a causa di una metastasi ossea a 46 anni scoperta troppo tardi. «Le sue ossa si scioglievano nel sangue, non sopportavamo di vederlo in quello stato, volevamo che accadesse a noi: lui così energico, buono, amato da tutti, pieno di vita. Ho tante riserve su Dio… sono bloccato, io che ero un credente convinto. Nessuno sa come aiutarmi e sono tanto, tanto arrabbiato». Giampaolo e Marina sono giunti per la prima volta in treno da Trieste; è stato il loro parroco a indirizzarli all’associazione Figli in cielo di Padova, «forse perché non sa più cosa dirci». «Improvvisamente è mancato tutto – confida con dolcezza Marina stringendo con la sua mano bianca e sottile quella spessa e scura del marito – Un po’ alla volta però ce la facciamo tutti; Luca voleva bene a tutti e i suoi amici ci stanno aiutando. Nostra figlia ci resta accanto, siamo fortunati». La rassegnazione non ha ancora vinto la loro battaglia.
A volte la consolazione si trova nell’aiutare gli altri
«Non è un percorso facile – afferma Paola Negro – A volte torniamo indietro, ma il Signore non ci delude. Siamo qui per scoprire insieme che la nostra è una vita ancora bella, degna di essere vissuta, con il dovere di accompagnare gli altri figli a cui voler bene, senza farli sentire inferiori nell’amore. Alcuni di noi mollano di fronte al ritorno della memoria che affatica il cuore, ma poi in un modo o nell’altro ritornano, perché l’ascolto diventa dono per altri cuori spezzati come il loro». Molti di questi genitori feriti hanno trovato campi d’azione dove esercitare il bene. Conoscono il sapore della sofferenza e riescono a intercettarla per farsi prossimo e comprendere gli altri, i più poveri e i più fragili». C’è chi è volontaria in cardiochirurgia, chi alla Domus Familiae Padre Daniele, chi sostiene le missioni diocesane e ha contribuito a costruire negli anni l’ospedale di North Kinangop in Kenya.
Un’esperienza che aiuta a cercare speranza
«Dio ha fatto esperienza della morte di suo figlio proprio come noi. Non possiamo non sentirci compresi ed è per
questo che abbiamo deciso di camminare dentro a questo dolore che vuol dire avvicinarci ogni giorno di più ai nostri figli che sono già nella Luce, per provare la libertà di sentirli di più dentro di noi» sono le sottolineature di Paola e Domenico. Il loro Luca aveva 14 anni e si è accasciato davanti al papà, che non ha potuto fare niente per lui, mentre
giocavano a ping pong, a casa. «Dal dolore ho perso il bambino di cinque mesi che avevo in grembo… – ricorda Paola – Questi incontri mi servono a scalfire qualcosa di me ogni volta: è un’esperienza che mi ha aiutato e che ci aiuta anche ad andare incontro ad altri genitori feriti dalla perdita come noi».