La rifondazione ucraina della Nato, tra occasioni e paradossi. Nota geopolitica
Ci sono momenti in cui la delusione genera schiettezza, sicché bisogna convenire con le constatazioni franche di Marco Tarquinio sull’Avvenire e in tv: continuano a risuonare le parole gas, petrolio, sanzioni, bancarotta, golpe, armi-armi-armi, Nato, ma la scomparsa della parola negoziato conferma ciò che paventavamo tempo addietro.
Basta leggere le dichiarazioni di Kiev, Washington, Londra e Bruxelles: dato che gli aiuti militari stanno mettendo alle corde i russi, la partita verrà decisa non sul tavolo ma sul campo. E c’è da crederci, se si rilasciano interviste sostenendo che parlare con Mosca equivale a perdere tempo. Cui prodest? Non reggerebbero i paragoni con altri eventi in cui si scelse di condurre a termine le ostilità al prezzo di immani catastrofi, eppure il tormento per le vittime sacrificali del “costi quel che costi” resta.
Cos’altro serve per dimostrare che alimentare il conflitto («sarà lungo», annuncia Biden) esaspera e, nello stallo, incrudelisce? Alla scoperta di una fossa comune si risponde con l’invio di armamenti più potenti, favorendone altre. Nel circolo vizioso, la via crucis (non quella contestata in deroga al vangelo del venerdì santo) si fa più tormentata. Sangue chiama sangue, come la migliore diplomazia forse avrà appreso dalle mattanze, le torture e gli stupri in Donbass documentate dall’Onu dal 2014 in poi. E bomba chiama bomba: i raid su Kiev dopo l’affondamento del Moskva non vogliono solo interrompere i pellegrinaggi con l’elmetto nella capitale.
Quanto a contraddizioni e paradossi l’elenco è nutrito. Qualche perplessità suscitano le richieste di armi per difendere il sogno europeista lanciate con al fianco un’icona della Brexit. In un’epoca di stati d’eccezione elevati a condizione ordinaria, non scompone l’integrazione accelerata dell’Ucraina nell’Ue, che dissolve in un attimo le remore per un potenziale membro del Gruppo Visegrad e per l’organicità al sistema di partiti ed esponenti giunti a ruoli istituzionali nonostante le apologie del nazismo, le connivenze con gruppi paramilitari e le posizioni rispetto alla segregazione e alla pulizia etnica.
Altro paradosso nell’ingiunzione di Zelensky all’Europa di chiudere il rubinetto del gas russo – rafforzata bloccando la visita di Steinmeier, colpevole della sua passata entente con il Cremlino – quando l’Ucraina lo utilizza acquistandolo, con il sistema del flusso inverso, dai suoi confinanti a ovest. D’altra parte, per aderire al legittimo appello, si rafforzano i vincoli con regimi che non spiccano per democraticità e rispetto della legalità internazionale, con Paesi in cui vige la sharia e con satelliti di governi un anno fa definiti dittatoriali, violatori di diritti umani e persecutori di nazioni irredente come i curdi. Ma si sa delle incoerenze cui, dal 1919, soggiace il principio di autodeterminazione dei popoli.
Astraendo dalla composizione del Consiglio Onu per i Diritti umani, un altro paradosso è nella giusta invocazione di una Norimberga per i crimini di guerra degli invasori fatta da Paesi che si sottraggono alla giurisdizione della già esistente Corte penale internazionale. Non si tratta di moralismo, ma di imparare che le incoerenze in politica internazionale a volte si pagano. Basti pensare alle guerre preventive e ai rovesciamenti dei regime altrui in nome della propria sicurezza o dell’interventismo umanitario: sono precedenti suscettivi di emulazioni e alibi che non sempre possono essere disinnescati con la legalità doppiopesistica dell’“io sì tu no!”.
Nell’elenco mettiamo anche la procedura che potrebbe portare Finlandia e Svezia nella Nato. Una vicenda scatenata, dopo anni di tensioni, dall’allargamento dell’alleanza militare in Ucraina sta procurando l’estensione in un altro punto del perimetro russo: motivata dal timore per la reazione di Mosca, essa si prepara ad accenderne un’altra, in reazione a catena.
Che l’integrazione ucraina nella Nato non fosse lontana lo mostra la progressione che inanella: le intercettazioni del Nuland Gate sull’insurrezione di Euromaidan e la selezione della squadra del governo che ne sarebbe sortito; la riforma costituzionale che detta l’adesione (2019); le esercitazioni congiunte e gli aiuti militari; il titolo di “enhanced opportunities partner” (2020); il piano strategico del Consiglio di Difesa ucraino (marzo 2021) che mette in cantiere, in collaborazione Nato, la ripresa della Crimea, la cui popolazione a maggioranza russa, nel referendum del 2014, aveva ripristinato lo status quo ante 1954; l’avvio del piano di adesione varato dal Consiglio nordatlantico (giugno 2021); la dichiarazione di Blinken sull’allargamento («la porta resta aperta, è il nostro impegno») a poche ore dall’annuncio di Macron (8 febbraio 2022) sull’impegno di Russia e Kiev ad attuare finalmente il Protocollo di Minsk. Il tracciato potrebbe indurre chi sia privo di accurati strumenti di analisi a indebite generalizzazioni, sino a chiedersi se sia la Nato a esportare la democrazia o viceversa.
Paradossale che l’unico punto fermo oggi parrebbe la desistenza di Zelensky sulla Nato: risolto il nodo di partenza, prima dell’aggressione russa, prima del disastro in corso. Ma un passo avanti è stato fatto. E non si tratta soltanto del vallo scavato tra Russia e Ue. La Nato si è reinventata, la guerra pare avere assunto una valenza rifondativa. Dalla dissoluzione dell’Urss, diverse voci hanno messo in discussione l’opportunità di investire ulteriormente su un’alleanza militare nata contro la minaccia sovietica. Mitterand parlava di anacronismo, più di recente Macron di “morte cerebrale”. Nel 1989 Bush sr, per rassicurare Mosca, scambiava l’unificazione tedesca e lo scioglimento incruento del Patto di Varsavia con l’esclusione di allargamenti a est. Testimone delle difficoltà di Clinton – pur incoraggiato dai neocons – nel mobilitare gli alleati nei Balcani nei termini voluti, anche un rampante Biden concordava con chi sconsigliava di stuzzicare l’orso russo puntandogli il fucile sull’uscio della tana, tanto più perché l’aquila statunitense, con Cuba, aveva definitivamente chiarito di non tollerare “atti di sfiducia” attorno al nido nordamericano. Bush jr, ispirato dallo staff neocon, andava giù duro sull’ostruzionismo degli europei alle guerre preventive, preferendo l’unilateralismo della formula di Rumsfeld per cui «it’s the mission that determines the coalition», che suona con un “chi ci ama ci segua, chi non ci segue non ci ama”. E a seguire fu persino Gheddafi che, col senno di poi, investì male i suoi crediti. Obama, guardando alla Libia, a fine mandato era libero di definire i governi europei degli ingrati free riders, restii a condividere equamente costi e dividendi delle iniziative militari. Trump descriveva la Nato come un investimento a fondo perduto, comportando un overstrechting terrestre reso superfluo dalla talassocrazia assoluta delle flotte statunitensi. Arriviamo così al ritiro dall’Afghanistan completato da Biden, stante l’incongruità tra un peso economico in contrazione e le spese militari dettate dagli oneri di leadership globale.
Ma la guerra in Ucraina apre un nuovo inizio. Rilancia Washington e al contempo la solleva dai costi del passato. Riformula il pil dell’Europa e la riarma, ne riduce gli spazi di manovra e ne aumenta l’appiattimento ancillare (più autofinanziato) di non-soggetto geopolitico. Le stesse sanzioni vincolano gli alleati direzionandone le partnership di scambio. Si configurano, cioè, i presupposti di ciò che in letteratura si individuerebbe come una conversione surrettizia di una benevolent hegemony (che lascia liberi di contribuire agli oneri) in una coercive hegemony (che imbriglia e richiede quote). Il che avviene riformulando un’“alleanza autoritativa” in “alleanza contro minaccia”: quest’ultima più intesa, ma resa più breve dal venir meno del pericolo dante causa comune. A meno di non assistere a nuovi allarmi compattanti. E passando dall’Ucraina alla Finlandia, l’aggressività del Cremlino non lesina occasioni in tal senso. Il tipo di occasioni che una certa scuola realista, un tempo ascoltatissima, ha sempre raccomandato di prevenire, facendo degli Usa un egemone autorevole perché saggio e lungimirante, prudente su “messianismi” e “crociate”, attento di segnare il confine oltre il quale l’anomia promette tragedie peggiori del ricavo immediato. E in grado di contenere le minacce altrui perché capace di contenersi, trovando ispirazione nelle parole pronunciate nel 1821 dall’allora segretario di Stato John Quincy Adams: «America does not go abroad in search of monsters to destroy».
Non è questione di essere filo- o anti- e neanche di equidistanza. Ferma la distinzione tra aggrediti e aggressori, ma anche tra governi e popoli, si tratta di sviluppare strategie di equiprossimità alle ragioni di questi ultimi, magari istituzionalizzando agende che li interpellino sui loro destini, senza confondere le bandiere con le comunità di persone in carne e ossa. Ma prima bisogna rovesciare la miopia militaristica che schiaccia gli occhi troppo vicini alla tela per osservare, nell’intero quadro, la genesi e la direzione del dato presente. La visione prospettica serva almeno a non commettere i medesimi errori, per dimostrare nei fatti la superiorità del modello di civiltà a cui legittimamente ci fregiamo di appartenere: chi ha più senno lo usi. Si perdoni la schiettezza, forse acuita dal mistero pasquale, ma questo massacro non può e non deve essere un’opportunità per rilanciare chissà quale programma uni- o bipolare. È un fallimento ad ampia corresponsabilità, ove alla brutalità seguono incapacità analitica, immorale cinismo e viltà politica. Ma c’è ancora modo di ravvedersi. Purtroppo, anche in vista delle spirali d’odio post-belliche, di povertà e carestie, l’alternativa tra pace e condizionatore non è soltanto fuorviante.
Giuseppe Casale
*Pontificia Universitas Lateranensis