L'arte del risorgere. L'immagine di Cristo, dalla Passione alla Resurrezione. Immagine del Dio che si è mostrato come immagine

"Il Cristo stesso scelse di mostrarsi come “immagine” con la sua nascita prima e la sua morte dopo, fino a quella “apparizione” da risorto con il «Pace a voi» per ogni tempo. Fu lui che nel risorgere dai morti, fece di quell’atto segreto e intimo, fucina d’interpretazione artistica per i secoli a venire. Un Cristo che nella sua stessa resurrezione ha completato l’opera creatrice e creativa, che ha alimento la storia dell’arte di sempre"

L'arte del risorgere. L'immagine di Cristo, dalla Passione alla Resurrezione. Immagine del Dio che si è mostrato come immagine
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Ammettiamolo, anche solo come esercizio di umiltà: sulla Pasqua è stato detto e scritto tutto. Anche se poi della Pasqua abbiamo capito poco! Chiediamocelo - credenti e no - duemila anni dopo quell’alba seguita allo Shabbat, quanto sia cambiata l’umanità, alla luce di ciò che stiamo vivendo oggi!? Per questo le sole parole per raccontare la Pasqua non bastano, imbrigliati come siamo in quel sentimento delle origini, quello degli apostoli quando videro il morto-risorto che creò una mistura umana divisa tra rivelazione, curiosità e incredulità. Se il linguaggio che diventerà strumento cardine della diffusione del primo cristianesimo, con il kerigma «Cristo è risorto e noi l’abbiamo visto», sembra aver perso oggi lo slancio iniziale e la presa sui fedeli, il linguaggio artistico invece continua a conservare la sua potenza espressiva ed emotiva. L’ha fatto nei secoli e continua a servirlo oggi, sempre che si abbiano occhi sinceri e mente aperta. Chi però sente più parlare d’arte sacra nelle omelie? Chi incita dal pulpito i fedeli a sbirciare tra le pareti delle chiese, piene di opere, dove tutto è già stato detto, dipinto o scolpito? Certo, riconosciamo Giotto, Piero Della Francesca, Michelangelo, Caravaggio e gli altri grandi maestri della creatività, senza però rimembrare che sono stati teologi oltre che pittori e scultori. Teologi tra i teologi, con aperture inimmaginabili dalle stesse menti cattedratiche. Con gli artisti, spesso l’ortodossia è diventata eterodossia. Il Cristo stesso scelse di mostrarsi come “immagine” con la sua nascita prima e la sua morte dopo, fino a quella “apparizione” da risorto con il «Pace a voi» per ogni tempo. Fu lui che nel risorgere dai morti, fece di quell’atto segreto e intimo, fucina d’interpretazione artistica per i secoli a venire. Un Cristo che nella sua stessa resurrezione ha completato l’opera creatrice e creativa, che ha alimento la storia dell’arte di sempre. Ecco perché rispolverare il linguaggio artistico, oggi, è più che mai un esercizio di serenità e gratuità che è dinnanzi ai nostri occhi, in una sorta di allenamento spirituale che dovrebbe rientrare nella quotidianità di preti e fedeli, mentre invece, gli sguardi sono sempre più rivolti verso il basso. Su testi preconfezionati, basta sentire le parole del papa sulle prediche “facili”, mentre molti fedeli restano incollati al tempo della predica! Se il fallimento delle parole in questo è sotto gli occhi di tutti, l’arte nella sua silente comunicazione sfida e supera ogni tempo, quello nostro compreso. Capita infatti che davanti a un’opera d’arte il tempo perda dimensione. La osservi a lungo. Torni poi a rivederla, e puntualmente si colgono sempre nuovi e inaspettati significati. Questo è il potere della “non parola” dell’immagine artistica: dono perpetuo e imperituro, per chi la fa e chi la osserva. Ed è proprio sul confine della vita con la morte che l’arte rimanda all’altrove, in quanto sfida e dono, al tempus fugit.

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Con il principio inossidabile di fare risorgere ogni volta chi si pone davanti a un quadro o una scultura. Atteggiamento questo che fa da contro altare all’iniquità del mondo, come “terapia meta-artistica” di cui abbiamo fame in momenti bui come questi. Unica condizione sine qua non, è il saper cogliere! Cogliere quell’attimo che rende una pennellata di colore come un colpo di scalpello, un linguaggio criptico per gli occhi, ma chiaro per l’anima. Maestro di questo, è stato Antonio Canova da Possagno (1757-1822), di cui celebriamo quest'anno il bicentenario dalla morte. In quel suo spolvero del classicismo, riportò sotto la luce scultorea il dolore più profondo, già affrontato da Michelangelo Buonarroti due secoli prima con la sua giovanile “Pietà”, che Canova affronterà con l’arditezza di andare oltre. Parliamo del gruppo bronzeo del Compianto, ultima sua opera terrena canoviana, che venne fusa in bronzo nel 1830 per essere collocata nel monumentale Tempio di Possagno (Treviso): quella chiesa parrocchiale che per volontà testamentaria è tutt’ora di proprietà dell’intera comunità.

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Tre figure a grandezza naturale che costituiscono una triangolazione di forme corporee che intrecciano la vita della Madre con quella del Figlio morto, in una pietà che porta elementi nuovi a quella che venne realizzata da Michelangelo due secoli prima. Sulla destra, prona, l’emblematica figura della Maddalena, chiamata a essere testimone sotto la croce, per diventare poi “prima discepola” nel giorno della resurrezione, in quanto prima testimone. Ma qui il raffinato linguaggio canoviano, come fu per l’antesignano pittore Caravaggio di un secolo prima, è tutto incentrato sulle mani dei protagonisti. Per Canova, la mano aperta della Madre che indica la croce, come muta gestualità per il dolore incarnato, stride con l’altra sua mano, caritatevole, pietosa e materna, chiamata a sorreggere il capo esanime del figlio che ha perduto, la cui vitalità sopraffatta dalla morte è in quella sua ciocca di capelli tra le mani della madre. Più in basso, la mano del suppliziato, è riversa a terra nel disumano abbandono, con il palmo aperto sul mondo e la ferita chiodata da cui esce un ultimo fiotto di vitalità, mentre l’indice (quello stesso michelangiolesco), è rivolto qui verso chi lo osserva, come preciso messaggio di corresponsabilità umana. In un atteggiamento d’incredulità, irrompe nella scena in uno slancio tutto carnale, la giovane Maddalena nel tentativo di toccare il polso del Cristo, alla ricerca di un ultimo improbabile afflato di vita, non più visibile agli occhi. Mentre con l’altra trattiene il braccio, come a voler trattenere a sé quel maestro che in vita la fece resuscitata nella dignità. Se lo strazio sembra essere dunque dominante, la subliminalità dello scultore che da duecento anni continua a “guardare” la sua opera dal suo sepolcro posto dalla parte opposta della scultura, l’ultimo risolutivo messaggio che vuole far passare è tutto rivolto alla resurrezione che verrà. Quella del Cristo. Quella sua. Quella nostra, che in tempi oscuri come questi, affida all’arte la resurrezione di questa travagliata umanità.

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