“Il virus non ha cambiato la scuola”: idee per una vera riforma
Riaprire o non riaprire? Non è questo il problema. Per il pedagogista Tonucci, “la scuola non ha colto l'occasione per ripensarsi. Tanto che le prove Invalsi valuteranno in base a programmi che dovremmo mettere da parte. Serve un cambiamento radicale: dai laboratori all'ascolto”. E per l'estate? “I genitori stimolino i figli a uscire, a stare fuori il più possibile”
A novembre il pedagogista Francesco Tonucci si domandava: “Può un virus cambiare la scuola?”. L'anno scolastico era da poco iniziato, tra incertezze e preoccupazioni e tutto era ancora possibile. Oggi, a distanza di cinque mesi, con l'anno che sta per finire e la scuola che di nuovo, sta per riaprire, la risposta è netta: “No, il virus non ha cambiato la scuola. Oggi so, ma lo sapevo già allora, che non basta un virus per cambiarla, così come non basta una riforma: né le leggi né le disgrazie hanno la capacità di cambiarla. Tanto che oggi migliaia di studenti si preparano ad affrontare le prove Invalsi, come se nulla fosse accaduto. D'altra parte, anche lo slogan scelto è sbagliato: 'La scuola non si ferma'. Ma se non si ferma, significa che non è di questo mondo, non assume come suo obiettivo principale quello di aiutare gli alunni a capire il mondo di cui dovranno essere protagonisti”.
Le prove Invalsi: come saranno e come dovrebbero essere? "Il mio timore è che siano quelle di sempre, che vadano a verificare fin dove sia arrivato l' apprendimento rispetto a programmi scolastici che, quest'anno, dovremmo invece accantonare. Mi aspetterei qualcosa di più coraggioso, mi piacerebbe che le prove Invalsi fossero l'occasione per chiedere agli studenti come abbiano vissuto questa esperienza, cosa abbiano imparato, cosa sia stata la scuola per loro. Imvece, le prove Invalsi ci permetteranno solo di dire che, con la riduzione delle lezioni in presenza, gli studenti hanno imparato di meno. Ma io penso che questo accada ogni anno, che sempre ci sia una percentuale alta di studenti che tutti gli anni semplicemente non impara. E non impara per tante ragioni, principalmente perché è una scuola che a loro non interessa. Ma la scuola dell'obbligo ha il dovere di preoccuparsi di essere interessante per i suoi alunni. L'altro giorno, un bambino spagnolo di dieci anni, durante un incontro, mi ha detto che quest'anno ha imparato cose che non scorderà più, mentre quelle che impara a scuola le dimentica subito. Questa piccola diagnosi è un trattato di pedagogia, da cui dovrebbe partire una vera riforma della scuola.
Cosa avrebbe potuto imparare la scuola, in questa circostanza?
Ad ascoltare gli alunni, innanzitutto, anche attraverso le piattaforme che tutti abbiamo iniziato ad usare. Alcuni insegnanti hanno capito subito che dovevano cambiare, o meglio erano già cambiati, rispetto a una scuola seduta, in cui chi ascolta sono gli alunni. Le piattaforme sono state avvilite, diventando strumenti per fare lezione e dare compiti, lasciando che i bambini stessero seduti davanti a uno schermo anche per cinque ore al giorno; ma sono state anche valorizzate, da chi le ha utilizzate per ascoltare i bambini, come piazze virtuali in cui incontrarsi e dialogare tra loro e con gli insegnati. Perché il mestiere dell'insegnante non è insegnare, ma aiutare a capire, sommare le opinioni, farle confrontare. E' un mestiere affascinante, tanto che i bravi insegnanti lo vivono con partecipazione, con gioia, non perdono un giorno di scuola, non si ammalano mai. Mentre gli insegnanti tradizionali stanno male, sono appesantiti.
Come immagina la scuola da oggi fino a giugno?
Dal punto di vista dei contenuti, consiglierei di utilizzare queste settimane per chiedere agli studenti cosa abbiano imparato e lavorare su questo, in modo che siano consapevoli di non aver perso un anno, ma di aver vissuto un'esperienza straordinaria. Gli studenti sapranno rispondere in modo sorprendente: alcuni bambini spagnoli, per esempio, hanno riferito di aver imparato a stare con i genitori, elaborando strategie per stare insieme. C'è stata una nuova consapevolezza, da parte di adulti e bambini, di non poter stare insieme facendo ciascuno le proprie cose, ma di dover trovare un punto d'incontro, dei momenti e delle esperienze condivise. Poi c'è stato il rapporto con la paura e con il dolore, con la casa: ecco, penso che ultimo periodo di scuola si debba dedicar a discutere di questo. La cosa peggiore sarebbe andare a cercare le lacune, andare a vedere cosa non sia stato sviluppato. È un anno che conta poco dal punto di vista dei programmi, dobbiamo esserne consapevoli e accettarlo. Per quanto riguarda invece l'organizzazione, mi piace ovviamente l'idea, suggerita da più parti, che la scuola aumenti i suoi spazi e si svolga all'aperto, ma a condizione che questo avvenga da adesso in poi, non solo come rimedio emergenziale. Tra le mie proposte, c'è la scuola dei laboratori: la scuola deve rinunciare all'aula, che anche dal punto di vista sanitario è un posto preoccupante, dove avviene una convivenza innaturale, perché si sta fermi, in tanti, per ore. La scuola deve far muovere gli studenti, portarli in spazi diversi, durante la mattinata, che siano significativi per sviluppare competenze diverse e soddisfare differenti interessi. Questa sarebbe la scuola che si preoccupa delle vocazioni e delle attitudini degli alunni, offrendo una vasta gamma di linguaggi.
Finita la scuola, come dovrà essere l'estate dei bambini?
Durante la pandemia c'è stata una protesta corale perché i bambini non potevano uscire di casa: mi sono associato naturalmente al coro, ma ho precisato che da decenni i bambini non escono di casa, se non accompagnatati dai genitori, specialmente in Italia. Siamo uno dei paesi in cui è più bassa l'autonomia dei bambini e non si capisce perché, visto che le città oggi sono più sicure di 30-40 anni fa. Allora il suggerimento che darei ai miei colleghi genitori e nonni è che approfittino dell'estate per lasciare i bambini, perché escano di casa, vivano esperienze esterne con sufficiente autonomia, perché poi tornando ci raccontino tutto, o meglio quel che possono raccontarci: perché se hanno vissuto in modo sano quell'esperienza, non tutto potrà essere raccontato. Noi siamo cresciuti anche grazie a ciò che abbiamo vissuto e non abbiamo potuto raccontare. L'estate, questa in particolare, deve essere il periodo favorevole per restituire autonomia e conservarla. Diciamo ai bambini: 'Vai a giocare e torna per pranzo, o direttamente per cena'. Non è vero che non sono capaci: sapranno farlo perfettamente.
A questo proposito, oggi parte la sperimentazione del progetto “Strade scolastiche”? Cosa ne pensa?
E' un'iniziativa troppo timida: una volta a settimana non significa nulla. La nostra proposta era più radicale: il primo obiettivo era favorire l'autonomia dei bambini, farli andare a scuola da soli, così che facciano un'esperienza sociale e motoria fondamentale per loro salute fisica e psichica. Altro obiettivo era che la città offrisse i suoi spazi alla scuola, regalando loro le strade adiacenti non solo nelle ore di ingresso e uscita ma per tutta la durata delle lezioni. L'iniziativa che si sperimenta oggi è pari a una montagna che partorisce un topolino.
Abbiamo parlato di bambini, ma gli adolescenti pare stiano soffrendo di più. Chi dovrebbe aiutarli a uscire di casa?
Gli adolescenti, per loro natura, dovrebbero contestare i genitori, separarsi da loro, odiarli quasi. Per questo hanno bisogno di uscire di casa, stare fuori tutto il tempo che possono. Obbligarli a stare a casa può aver generato, nel migliore dei casi, conflitti e liti, nel peggiore dei casi isolamento e la scelta di una vita virtuale. Chi potrebbe portarli ora fuori dalle loro stanze? Quello che la scuola dovrebbe fare per i bambini (con i laboratori in cui tutti possano trovare i loro “giocattoli” preferiti), per gli adolescenti dovrebbe farlo la città, offrendo luoghi, laboratori, posti in cui possano andare per fare le cose che a loro interessano: esperienze artistiche, artigianali, d'incontro. Penso a spazi che le città affidino alla gestione dei ragazzi, che se ne assumono la responsabilità e pagano questo servizio attraverso le loro prestazioni. Città così concepite, che offrano agli adolescenti spazi in cui coltivare i loro interessi, sicuramente li aiuterebbero a uscire dalle loro stanze e dalle loro case. Come alla scuola servono insegnanti preparati, alla città servono sindaci capaci di realizzare città come queste: e sta a noi, genitori ed educatori, scegliere sindaci che vogliano bene ai bambini e ai ragazzi. O disposti a imparare.
Chiara Ludovisi