Chiamati a farsi carico. All'indomani della giornata del malato, una riflessione su famiglie e malattia
Ad una famiglia che vive il dramma della malattia è chiesta una testimonianza tanto difficile quanto preziosa, ovvero quella di rimanere unita e non perdere la speranza
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“Dio, Padre della vita, insegnaci come il soffrire possa diventare luogo di apprendimento della speranza”. Conforme allo spirito dell’anno giubilare, è questa la prima invocazione della preghiera per la XXXIII Giornata Mondiale del Malato tenutasi l’11 febbraio. Una ricorrenza in occasione della quale, in molte comunità parrocchiali, si è celebrato il sacramento dell’unzione degli infermi e si è dedicata un’attenzione particolare a chi sta affrontando la prova della malattia. Quando essa colpisce è come se inevitabilmente creasse una demarcazione fra i sani che non se ne preoccupano e i malati e il rischio è che chi soffre veda aggravata la sua situazione da un senso di solitudine e di abbandono. Decisive sono in tal senso le famiglie perché è al loro interno che si consuma il dramma di ogni sofferenza fisica e psichica. Quando un membro è colpito da qualunque tipo di male, tutti gli altri non possono vivere come se niente fosse e sono chiamati a farsi carico di questa persona che ha bisogno di aiuto materiale, di cura e di ascolto. Pensiamo ai nonni: la loro fragilità, compresa quella emotiva, ricade sulle spalle dei figli, dei generi e delle nuore e se non è soccorsa con mitezza ed accolta senza giudizio essa diviene un fardello ingombrante, che viene sopportato senza che il peso sia davvero alleviato a chi soffre in prima persona. Quando ad ammalarsi è una madre o un padre di famiglia in giovane età e questi deve interrompere il lavoro, magari essere ricoverato in ospedale per un lungo periodo, le necessità divengono più pressanti e incombenti e la famiglia è chiamata a reggere l’urto con ancora più coesione. Quando poi gravi malattie colpiscono i bambini fin dalla più tenera età, il mistero del male zittisce anche le persone più eloquenti. Tutti vorremmo che non esistesse il dolore innocente e silenziosamente speriamo di non essere sottoposti a questa prova, ma ci rendiamo conto che, per quanto comprensibile, pregare solo perché questo calice sia allontanato non è quello che il Signore ci domanda. Ci è chiesta una preghiera di più ampio respiro, più coraggiosa, che si fa carico della sofferenza altrui e si traduce in gesti d’amore concreti, tangibili, in uno sforzo di immedesimazione misericordiosa, come se fosse successo a noi. I cristiani sono chiamati a pregare il Padre e poi a spendersi toccando e sanando dove possono le ferite dei fratelli, proprio come ha fatto Gesù che ci ha dato, con il suo Spirito, questo potere. Affidarsi a Lui e vivere come fratelli fra noi significa evitare sia il fatalismo, sia l’indifferenza. D’altro canto ad una famiglia che vive il dramma della malattia è chiesta una testimonianza tanto difficile quanto preziosa, ovvero quella di rimanere unita e non perdere la speranza. Non solo la speranza della guarigione, che non sempre sarà possibile, ma anche e soprattutto quella che la sofferenza non è senza senso, ma è un luogo in cui si può sperimentare la presenza del Signore risorto che passa anche attraverso quella croce. Le famiglie con un malato fra loro possono essere davvero delle fonti di luce perché spesso sono cenacoli di preghiera fervente. Da esse possiamo apprendere molto e ad esse possiamo offrire la nostra prossimità, senza temere di incontrarle, ma anzi mettendoci sulla loro strada per fare un tratto di cammino insieme. E in questo cammino, unica nella sua intercessione è la figura di Maria, colei a cui Gesù ci ha tutti affidati sotto la croce, la donna che ci insegna ad accogliere il dolore e a saperlo riconsegnare al Padre. Pregare in famiglia i misteri del Rosario, ossia la vita di Cristo vissuta attraverso gli occhi di sua madre ci permette di entrare in una relazione profonda anche fra noi che possiamo contemplare come il mistero del male non ha l’ultima parola ma viene vinto dall’amore.