Costruire una nuova pace. Le risposte del mondo cattolico di fronte alla guerra e alla violenza
L’attenzione della Chiesa è da sempre puntata sui modi in cui si può mantenere la pace.
Igino Giordani aveva ubbidito alla chiamata della patria nella prima guerra mondiale, sparando “cinque o sei colpi in aria”, come racconta nelle sue Memorie, “per tema di uccidere un figlio di Dio”. E Clemente Rebora, uno dei grandi poeti del Novecento, aveva talmente sofferto nel corpo e nell’anima di fronte alle inaudite sofferenze di giovani lasciati a dissanguarsi in terra di nessuno, da abbandonare tutto in una “mania d’assoluto” -parole di uno psichiatra- e farsi sacerdote. Ungaretti stesso, partito volontario per ritrovare una patria da “estraneo”, dovete arretrare di fronte a quell’orrore disumano. Sono solo pochi tra i numerosi esempi di reazioni dei giovani in guerra nel ’15-18. Quella guerra che Benedetto XV aveva deprecato come una “inutile strage”.
Una guerra che portò, infatti, vent’anni dopo, ad un altro conflitto. E nonostante, ancora una volta, i moniti dei Pontefici. Quando anche il secondo macello terminò, si pose il problema degli armamenti e della guerra fredda. La costituzione Gaudium et spes tornò ad ammonire: la corsa agli armamenti “danneggia in modo intollerabile i poveri, e c’è molto da temere che, se una tale corsa continuerà, produrrà un giorno tutte le stragi di cui si preparano i mezzi”.
Eravamo nel 1965, con il conflitto in Vietnam che era scoppiato l’anno prima: l’umanità si trovava in uno dei ricorrenti momenti in cui le potenze, dall’impero persiano a quello romano, e poi quello austro-ungarico, fino a quegli anni Cinquanta in cui un ovest liberal-democratico si contrapponeva ad un est sotto la dittatura comunista, si fronteggiavano minacciosamente. Quello che ci appare come spirito profetico, e indubbiamente lo è, è anche figlio di un realismo costruttivo che lancia segnali d’allarme, perché le armi in possesso delle potenze non erano più le stesse -già di per sé letali- della prima guerra mondiale, ma quelle chiamate ABC, cioè atomiche, biologiche, chimiche: le prime avevano fatto tragicamente il loro ingresso nella storia a Nagasaki e Hiroshima, alla fine del secondo conflitto mondiale.
Due anni prima, l’enciclica Pacem in terris, testamento spirituale di Giovanni XXIII, era stata se possibile più esplicita: “Ogni atto di guerra che indiscriminatamente mira alla distruzione di intere città o di vaste regioni e dei loro abitanti, è delitto contro Dio e contro la stessa umanità e con fermezza e senza esitazione deve essere condannato”.
L’attenzione della Chiesa è da sempre puntata sui modi in cui si può mantenere la pace. Se non vogliamo parlare di alcune scelte, che prendevano origine anche dall’insegnamento del Cristo, come quella di Tolstoj e poi di Gandhi, e prima ancora di alcune religioni, come quella catara, di praticare un pacifismo totale, basato sul concetto di non resistenza al male. Una opzione oggi drammaticamente ritornata tra le possibilità di sopravvivenza del genere umano. E che si affacciò in talune componenti politiche quando si trattò di discutere dell’ingresso dell’Italia nel Patto Atlantico. De Gasperi affermò in senato, l’11 marzo del 1949, che nella Nato si doveva vedere “una integrazione concreta dell’Onu”, che poteva garantire la pace, perché, e questo passo è importante per capire anche il nostro oggi, “nessun Paese o blocco di Paesi fino a quando non avrà mire aggressive ha nulla da temere da esso”. Nonostante l’opposizione della sinistra e di una parte del mondo cattolico, ad esempio Giuseppe Dossetti, che poi lasciò la politica per farsi sacerdote, (voterà a favore per disciplina di partito), furono 342 i voti a favore dell’ingresso del nostro Paese nel patto atlantico, contro 170 no e 19 astenuti.
Sono in molti oggi a vedere in un intervento del Pontefice la possibilità di arrivare alla pace. Nell’intervista concessa al “Corriere della sera”, papa Francesco, che si è dichiarato disponibile ad incontrare Putin, è stato ancora una volta esplicito: il vero problema è costituito dalle armi, che rappresentano una forma di “progresso” tecnologico testato sulla pelle della gente: “si stanno provando le armi”, ha detto, cogliendo il senso di una strategia di lunga portata che ha visto come cavie i soldati esposti ai gas nervini e le popolazioni inermi massacrate dalle atomiche.
Oltretutto non è la prima volta che un pontefice si fa sentire su un motivo che è sotto gli occhi di tutti: se quei soldi fossero usati per combattere la fame, la malattia, la miseria, non saremmo in presenza, nel Duemila, di milioni di persone ammalate e sofferenti per non avere accesso alle cure e al cibo.