I calzini del vescovo. Lo scherzo dei calzini colorati ha offerto al vescovo tirolese l’occasione per parlare ai ragazzi del patrono diocesano
In questi giorni, in Tirolo si sono concluse le celebrazioni per i 500 anni dalla nascita di Pietro Canisio, primo gesuita della provincia germanica, che la diocesi austriaca di Innsbruck ha scelto come suo patrono.
“Desidero risvegliare negli altri e in me stesso un fervore più grande affinché la fede venga custodita preziosamente intatta e autentica, poiché da essa dipendono la saggezza cristiana, la pace generale e la santità dell’uomo”.
Era l’8 maggio 1521 quando a Nimega, città olandese della provincia della Gheldria, situata a pochi chilometri dalla Germania, vedeva la luce Pietro Canisio (1521-1597), santo e dottore della Chiesa.
Ha 22 anni quando entra nella Compagnia di Gesù, approvata appena tre anni prima. A Colonia affitta una piccola casa e lì costituisce la prima comunità di gesuiti in Germania. Questo fu la prima delle tante realtà che, in mezzo secolo di attività missionaria, Pietro Canisio mise in piedi. A partire dai collegi. Il primo fu a Ingolstadt; ci furono poi nel 1559 quello di Monaco di Baviera e, nel 1562, quello di Innsbruck.
In questi giorni, in Tirolo si sono concluse le celebrazioni per i 500 anni dalla nascita del primo gesuita della provincia germanica, che la diocesi austriaca di Innsbruck ha scelto come suo patrono e che s. Giovanni Paolo II ebbe a definire nel 1997 “dottore della Chiesa dell’annuncio”, sottolineandone così l’intensa opera di predicatore e catechista.
Proprio il fervore – in tedesco “Herzfeuer” (letteralmente “il fuoco che ti infiamma il cuore”) – ha fatto da filo conduttore alle numerose iniziative promosse in Tirolo da parrocchie, associazioni e realtà ecclesiali.
Due le date che hanno concluso l’”anno canisiano” in Tirolo: il 25 settembre a Innsbruck e il 2 ottobre a Lienz. Un doppio appuntamento in cui le limitazioni imposte dalla pandemia non hanno – almeno per una volta – sovrastato la gioia di far festa insieme.
Oltre 1.200 i fedeli che hanno partecipato alla messa, presieduta all’aperto, nella piazza principale di Lienz, dal vescovo di Innsbruck Hermann Glettler. E tra loro c’erano anche 270 tra chierichetti e accompagnatori, provenienti da tre decanati del Tirolo orientale. E proprio i chierichetti sono stati protagonisti di una singolare caccia al tesoro, che ha coinvolto direttamente anche mons. Glettler. Una delle cose che i ragazzi dovevano riuscire a scoprire era di che colore erano i calzini del vescovo. Un’impresa, questa, che si è rivelata più ardua del previsto, come racconta la diocesi tirolese in un post su Facebook. Perché i giovanissimi non sono riusciti a identificarne il colore. Ogni gruppo aveva trovato un colore diverso. A svelare l’arcano, alla fine della Messa, è stato proprio mons. Glettler: per fare uno scherzo ai chierichetti, il vescovo aveva cambiato più volte calzini, indossandone di fantasie e colori diversi.
Lo scherzo dei calzini colorati ha offerto al vescovo tirolese l’occasione per parlare ai ragazzi del patrono diocesano – definito il “pacemaker della nostra fede” e il nostro “coach in cielo” – e del suo “Herzfeuer” (fervore) nell’essere un uomo di fede.
Pietro Canisio, in cinquant’anni di impegno missionario, percorse decine di migliaia di chilometri. Alcuni storici calcolano siano stati addirittura 100mila. “Il suo cammino al servizio della fede cattolica – scriveva Giovanni Paolo II – lo portò in tutti i Paesi dell’Europa centrale, dalla sua città natale Nimega, a Roma e a Messina, da Strasburgo al mio luogo di nascita, Cracovia, e infine a Friburgo. I confini nazionali erano estranei alla sua opera; egli si considerava al servizio della Chiesa che va oltre le nazioni”.
“Pietro Canisio – ha sottolineato mons. Glettler – deve aver avuto bisogno di cambiare molti calzini, visto tutti i viaggi che ha fatto a piedi”. E, parlando della fede, il vescovo di Innsbruck ha usato un tipico modo di dire che ha al centro – guarda caso – proprio i “Socken”, i calzini. “Man muß sich auf die Socken machen”. “Bisogna darsi una mossa”.
È curiosa l’origine di questo modo ti dire, che ha a che fare proprio con l’etimologia del termine tedesco “Socke”, che deriva dal latino ‘soccus’ e dal greco ‘sykchos’. Il ‘soccus’ era un’antica calzatura, molto simile alle nostre pantofole, usata nell’antica Roma. Esistevano diversi tipi di ‘soccus’, adatti alla differenti circostanze della vita quotidiana e della posizione sociale di chi li indossava. All’interno delle città romane veniva chiamato ‘calceus’ (termine che indicava il calcagno, da cui deriva la parola italiana ‘calzatura’). Il ‘soccus’ era ritenuta una calzatura femminile e veniva usata dagli attori comici, in netta contrapposizione con il coturno, lo stivaletto formato da strisce di cuoio intrecciate, che veniva indossato dagli attori tragici. Per sua natura il ‘soccus’ era una scarpa che si indossava velocemente quando si doveva andare via in fretta. Da qui si è arrivati al modo di dire che invita a “darsi una mossa”.
A giocare con la parola “Socke” non è stato solo mons. Glettler. Dopo averlo ascoltato, una chierichetta ha commentato: “Eine coole Socke, der Bischof”, “un tipo cool, il vescovo”.