«Tutto può succedere, ma i fondamentali dicono Hillary»
In questi giorni tra una convention e l’altra, chi ha le idee chiare sulle dinamiche che segneranno il voto dell’8 novembre negli Usa è Fabrizio Tonello, titolare all’università di Padova dei corsi sul sistema politico americano e la politica estera a stelle e strisce, dopo un’esperienza da docente a Pittsburg e da ricercatore alla Columbia University. La sua previsione: «Tutto può succedere, ma i fondamentali dicono Hillary».
«Guardi, il 2016 è l’anno in cui tutto, letteralmente tutto, può succedere – è l’attacco della sua riflessione – Nell’ultima settimana abbiamo visto uno pseudo colpo di stato in Turchia, un attentato, vero purtroppo, a Nizza e un nuovo primo ministro donna inglese. Quindi se da qui a novembre ci fosse l’invasione dei marziani non ci sarebbe nulla di cui stupirsi. Detto questo, per la prima volta un candidato fortemente osteggiato dal suo partito riesce a ottenere la nomination alla Casa Bianca».
È stato questo il vero motivo di interesse della convention repubblicana blindata di Cleveland?
«Direi di sì. Trump è l’unico vero outsider nella storia dei partiti americani. Naturalmente ci sono già stati dei candidati marginali rispetto all’establishment: si sa che nel 1972 la candidatura democratica del senatore George McGovern, con un orientamento fortemente pacifista, non rappresentava la linea politica maggioritaria del partito in quel momento, e venne sconfitto alle elezioni. Lo stesso avvenne nel 1964 per il partito repubblicano: il senatore dell’Arizona Barry Goldwater fu candidato nonostante l’establishment avesse messo in campo niente meno che un Rockfeller. Anche in questo caso la sconfitta fu netta».
Prevede lo stesso per Trump nel 2016?
«Non possiedo la sfera di cristallo, meglio non avventurarsi in previsioni. Tuttavia da Cleveland in poi il partito farà di tutto per cercare di digerire o di assorbire Trump, perché non compete solo per la presidenza, ma anche per il rinnovo di un terzo del Senato e della Camera».
Tuttavia i big del Grand Old Party hanno disertato la convention…
«Sì, ma tra gli scienziati politici il tema dell’influenza del partito sul comportamento degli elettori è molto discusso: alcuni sostengono che la compattezza del partito dietro il candidato sia importante, io penso invece che in questi anni ci sia stata una forte polarizzazione sia sociale che geografica degli elettorati. A San Francisco probabilmente è possibile trovare un repubblicano solamente allo zoo, mentre in Oklahoma i democratici li tengono in apposite vetrinette per mostrarli ai turisti… Questo per dire che alla fine i repubblicani voteranno per i repubblicani e i democratici voteranno per i democratici».
Il contesto sociale negli Usa è teso e diviso. I fatti di sangue tra poliziotti e giovani di colore o attentati come quello al locale gay di Orlando potrebbero spostare il voto su Trump?
«Detto che la campagna elettorale si decide nell’ultimo mese, è chiaro che gli attentati o il clima da guerra civile strisciante tra la polizia e i giovani afroamericani potrebbero provocare un’invocazione di “legge e ordine” come avvenne nella campagna elettorale del 1968. Tuttavia il voto è sempre il risultato di due questioni molto differenti tra loro: da un lato la campagna elettorale, il clima, l’atmosfera, il candidato, ed è su questo che si concentrano i mass media che vanno a nozze con Trump e le sue performance. Dall’altro il fattore più strutturale e invisibile, quello demografico. Sappiamo per esempio che gli afroamericani e gli ispanici tendono in maggioranza a votare democratico e la dura campagna di Trump contro gli immigrati provenienti dall’America Latina e dal Messico sicuramente non gli gioverà. C’è poi uno scarto importante nel comportamento di voto delle donne, più democratiche, rispetto a quello degli uomini, più repubblicani. Un candidato misogino come Trump avrà maggiore difficoltà a farsi votare dalle donne. I fondamentali demografici insomma sono favorevoli a Hillary Clinton, anche se non entusiasma».
L’ex first lady infatti appare appannata, specie dopo l’indagine dell’Fbi sul caso delle mail inviate come segretario di stato da una casella di posta elettronica personale.
«Certo, non suscita grandi entusiasmi, ma allo stesso tempo è un candidato credibile. Anche se gli outsider vanno di moda, i candidati “insider” o parte dell’establishment non scompaiono. Tanto più che negli Stati Uniti, essendoci soltanto due candidati, si vota molto contro l’avversario. La stragrande maggioranza degli elettori democratici, al solo pensiero che Trump possa diventare presidente, all’ultimo minuto andrà alle urne e voterà Clinton».
Clinton fornisce qualche garanzia in più in politica estera?
«Solo in Italia si pensa che la politica estera sia un fattore importante per gli elettori americani nella scelta del loro presidente. In realtà essi pensano soprattutto alla loro condizione, alla politica interna, alle loro preferenze per i candidati che promettono meno tasse come i repubblicani oppure più welfare come i democratici, ma la politica estera sta molto in fondo le preoccupazioni degli elettori».