"Terre di confine": come nel 1966 i morti salvarono i vivi
Enrico Baruzzo, su incarico di don Simone Bottin, fino a pochi mesi fa parroco di Valli di Chioggia, ha scritto Terre di confine per spiegare la forte identità storica che lega le due comunità parrocchiali di Valli e Conche che oggi camminano insieme in maniera ancora più stretta da un punto di vista pastorale.
Come mai la comunità di Valli, così prossima a Chioggia, è in diocesi di Padova? È una delle domande che si è posto don Simone Bottin, fino a pochi mesi fa parroco di Valli di Chioggia. Domande ancor più pregnanti all’avvio di un nuovo cammino di collaborazione comunitaria tra le parrocchie di Conche e Valli. Ecco la ragione prima del progetto di un’attenta indagine storica che permettesse di far piena luce sulle vicende che hanno interessato negli ultimi settant’anni le due comunità, mantenendo tuttavia viva un’identità «che avrà – scrive lo stesso don Bottin nell’introduzione – sempre più bisogno di aprirsi a nuovi percorsi e soprattutto a nuove collaborazioni».
Ed ecco, di conseguenza, l’incarico affidato a Enrico Baruzzo perché ricostruisse nel volume Terra di confine. Conche e Valli nel Novecento (Tracciati, pp 119, euro 16,00) la storia di questo territorio, sospeso fra terra e acqua, da secoli area di confine, in passato perlopiù frequentato, soprattutto per il territorio dell’attuale parrocchia di Valli, da pescatori «poveri e meschini», mentre Conche visse una marcata marginalità.
L’intera zona si popolò agli esordi del 20° secolo, complice l’avvio di un’intensa bonifica che portò negli anni Trenta alla realizzazione del cosiddetto borgo rurale Luigi Razza in località Zena. Con l’affluire della gente si registrò una ripresa della vita sociale e religiosa nella curazia di Conche, momento dal quale prendono avvio le pagine del libro. Più precisamente la narrazione inizia dall’abbattimento, durante i lavori di rinforzo degli argini, della vecchia chiesa di Conche (nella foto), vicinissima al Brenta, e del contestuale trasferimento a Vallona.
La ricostruzione storica, invece, ha come punto d’arrivo la tremenda alluvione del 1966. Nella trama di un volume che si dipana minuziosamente tra miseria endemica e vari sacerdoti in cura d’anime che qui hanno scritto pagine eroiche in una difficile quotidianità, emergono tre date che più di altre hanno segnato la vita delle comunità di Conche e Valli.
Martedì 5 agosto 1913, festa della Madonna della Neve, il canonico della cattedrale mons. Pietro Brotto benedì solennemente la nuova chiesa. Fu il felice (e per nulla scontato) epilogo di una lunga contesa iniziata quasi un decennio prima per staccarsi da Santa Margherita di Calcinara. Neppure la scelta del luogo di edificazione della nuova chiesa fu facile: indetto addirittura un referendum, alla fine si optò per Vallona su di un terreno ceduto dal conte chioggiotto Angelo Comello.
Venerdì 29 giugno 1951: all’indomani di un percorso irto di malintesi e contrasti, nella festa dei santi Pietro e Paolo venne elevata al rango di parrocchia autonoma la curazia di Valli. Fin dal 1939 una quarantina di capifamiglia avevano incontrato il cancelliere vescovile mons. Giuseppe Pretto e il parroco di Conche don Alessandro Vendrasco per la costruzione di un nuovo edificio sacro “succursale” che, dopo l’ovvia sospensione della seconda guerra mondiale, fu inaugurato il 25 marzo di dieci anni dopo: questa fu la chiesa di Valli di Conche, inaugurata dal patriarca di Venezia (e amministratore apostolico di Padova) mons. Carlo Agostini in un’affollata cerimonia che l’attuale parroco di Montemerlo, don Giampaolo Tiengo, allora chierichetto, rammenta bene per la sua solennità.
4 novembre 1966: intorno alle 21.30, dopo una giornata di trepidazione per le abbondanti tracimazioni, lo scoppio di una condotta di metano squarciò l’argine del Brenta: la massa d’acqua sfondò i muri perimetrali del cimitero abbattendo i loculi. Scrisse il parroco don Giuseppe Salbego, che di quei giorni ha lasciato una preziosa cronistoria: «Se non c’era il cimitero, il paese di Conche sarebbe stato spazzato via dalla piena del Brenta. I morti hanno salvato i vivi».