La chiesa e la famiglia: formare coscienze è la vera sfida
Il progetto di nuova evangelizzazione della famiglia che papa Francesco affida alle nostre comunità, come ben si evince dall'esortazione Amoris laetitia, parte dall’idea che non basti insistere sulle questioni dottrinali e che si debba dare spazio alle coscienze dei fedeli: formandole, e non pretendendo di sostituirle.
Il paragrafo forse più illuminante e stimolante della recente esortazione post-sinodale La gioia dell’amore è il n. 37, nel quale papa Francesco traccia con parole semplici e chiare un progetto di nuova evangelizzazione della famiglia da affidare alle nostre comunità.
«Per molto tempo – scrive il papa – abbiamo creduto che solamente insistendo su questioni dottrinali, bioetiche e morali, senza motivare l’apertura alla grazia, avessimo già sostenuto a sufficienza le famiglie, consolidato il vincolo degli sposi e riempito di significato la loro vita insieme. Abbiamo difficoltà a presentare il matrimonio più come un cammino dinamico di crescita e realizzazione che come un peso da sopportare per tutta la vita. Stentiamo anche a dare spazio alla coscienza dei fedeli, che tante volte rispondono quanto meglio possibile al vangelo in mezzo ai loro limiti e possono portare avanti il loro personale discernimento davanti a situazioni in cui si rompono tutti gli schemi. Siamo chiamati a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle».
Queste parole evidenziano l’analisi e la strategia di pastorale della famiglia che papa Francesco ha in mente e affida alle nostre comunità: né rotture, né rivoluzioni, ma progettualità e formazione. Soprattutto formazione.
Spesso il cattolico viene richiamato e messo di fronte all’esigenza di formare la propria coscienza, ma non sempre gli viene spiegato in che cosa consiste la formazione della coscienza e quali sono gli impegni che attendono ciascun individuo e comunità in corrispondenza ai diversi problemi che la coscienza personale e comunitaria è chiamata ad affrontare.
Il primo problema è di ordine conoscitivo: non si può volere una cosa se prima non la si conosce.
È compito della coscienza conoscere anzitutto il bene, per il credente la volontà di Dio, che s’intende realizzare. Gesù paragona questa funzione della coscienza alla funzione dell’occhio per il corpo. «Se il tuo occhio è sano, anche il tuo corpo è tutto nella luce; ma se è malato, anche il tuo corpo è nelle tenebre. Bada dunque che la luce che è in te non sia tenebra» (Lc 11,34-35).
Formare in questo senso la coscienza implica essere nella luce, conoscere i problemi da affrontare, accordarsi sul significato dei termini che si usano nell’affrontarli, verificare il punto di vista morale e la teoria etico-normativa che si addotta, in una parola mettere in atto la funzione intellettiva della coscienza. Il che equivale a saper avviare un processo di riflessione per la fondazione del giudizio morale, a saper usare le capacità argomentative di cui si dispone al fine di individuare l’atteggiamento moralmente buono da assumere e il comportamento moralmente retto che meglio lo incarna e lo esprime nei casi storicamente determinati della vita.
Si tratta in altri termini di formarsi mediante lo studio e la ricerca, di affinare le proprie capacità argomentative, di acquisire e approfondire le proprie conoscenze in ambito morale.
In riferimento ad esempio al problema dei divorziati risposati e a una loro eventuale ammissione alla comunione eucaristica non posso non rispondere prima alla domanda: ma è proprio vero che ogni loro relazione sessuale è adulterio? E se sì, perché? Se no, perché?
Al riguardo papa Francesco introduce una casistica interessante che vale la pena di evidenziare in quanto ammette per la prima volta in forma pubblica e ufficiale che anche nell’ambito della sessualità vi possono essere atti o comportamenti oggettivamente più o meno gravi.
Il secondo problema è di ordine volitivo: non è sufficiente conoscere il bene, ciò che Dio vuole e comanda, ma è necessario realizzarlo.
Nell’orazione della prima domenica del tempo liturgico ordinario la chiesa invita i fedeli a pregare così: «Ispira nella tua paterna bontà, o Signore, i pensieri e i propositi del tuo popolo in preghiera, perché veda ciò che deve fare e abbia la forza di compiere ciò che ha veduto».
Formare la propria coscienza a livello intellettivo non basta, non equivale a essere più buoni dal punto di vista morale, così come il genio per il fatto di essere un genio non può essere considerato un santo. E ciò per il semplice motivo che la bontà morale di una persona va a sedimentarsi nella sfera volitiva.
Essere buoni o cattivi non dipende dall’intelligenza, tanto meno dalla natura o da Dio, dipende da noi, dalla nostra libertà.
Siamo o diventiamo buoni o cattivi solo se lo vogliamo, nessuno può costringerci a esserlo o diventarlo. Formare la propria coscienza è in questo senso compito esclusivo del singolo, della persona, nel matrimonio come fuori del matrimonio.
Sotto questo profilo un divorziato risposato civilmente può essere più o meno buono o cattivo al pari di un marito regolarmente sposato in chiesa, e viceversa naturalmente. Dipende dall’atteggiamento che si assume nei confronti degli altri.
Il terzo problema è di ordine parenetico, esortativo: non è sempre facile essere forti e risoluti nella vita morale, resistere alla tentazione, alle seduzioni del male, del peccato.
«Io so infatti che in me, cioè nella mia carne – scrive Paolo nella lettera ai romani – non abita il bene; c’è in me il desiderio del bene, ma non la capacità di attuarlo: infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Rom 7,18-19).
Oltre a un risvolto intellettivo e volitivo, va preso in seria considerazione nella coscienza anche un suo risvolto parenetico, esortativo, che consiste in un appello, rivolto a se stessi o agli altri, a resistere al male, al peccato, e a crescere nel bene, nella grazia. Appello che una volta captato dall’antenna ricevente della coscienza viene trasmesso al soggetto morale cui la parenesi o l’esortazione è rivolta.
La tentazione, la seduzione del male, del peccato, sia per il divorziato risposato come anche per quanti non divorziano, è sempre in agguato e si configura solitamente come un tentativo maldestro di risolvere i problemi non cambiando se stessi, ma cambiando persona.
È una tentazione, una seduzione subdola, che ci impedisce di sviluppare quella sensibilità morale o necessità interiore di fare il bene che non avvertiamo come costrizione o peso, ma come la vera libertà umana e cristiana di cui ci parla con tanta insistenza Gesù nel vangelo e che siamo soliti definire libertà di amare.