Charlie Gard, l'eutanasia, il diritto alla vita
Nella vicenda del piccolo Charlie s’intravede uno dei problemi morali più complessi e delicati del nostro tempo. Quando una vita umana appare come sola sofferenza si deve continuare a vivere solo per amore della vita? La domanda ovviamente si pone a ogni uomo quando la sofferenza diventa insopportabile e la malattia è incurabile. Si pone in un modo ancora più drammatico quando la decisione se continuare a vivere o meno passa ad altri, siano essi coniugi, genitori, medici, giudici.
Sono stati staccati con il consenso dei genitori i macchinari che hanno tenuto in vita Charlie, il bambino britannico gravemente malato al centro di una lunga battaglia legale.
Il piccolo era ricoverato in un ospedale di Londra per una rara malattia che secondo i medici era incurabile e lo faceva soffrire troppo. Di qui la decisione dei sanitari di staccare la spina a cui i genitori si erano opposti rivendicando il diritto di tentare negli Stati Uniti una cura sperimentale.
Ha preso il via una lunga battaglia legale al termine della quale i coniugi Gard hanno dato alla fine il loro consenso. Non senza peraltro aver prima osservato che si era perso fin troppo tempo in dispute giudiziarie.
«Noi e soprattutto Charlie siamo stati terribilmente abbandonati lungo tutto il processo», hanno dichiarato, ringraziando quanti, comuni cittadini e istituzioni, avevano dato sostegno alla loro causa. Che alla fine in qualche modo hanno vinto, ottenendo dal tribunale di poter scegliere quando e dove passare le ultime ore insieme al bambino prima di lasciarlo volare in cielo.
Riassumiamo brevemente la drammatica vicenda
Al piccolo Charlie era stata diagnosticata poco dopo la nascita una terribile malattia: la sindrome da “deplezione del Dna mitocondriale”, una patologia che causa un progressivo e inesorabile indebolimento muscolare di cui si conoscono solo 16 casi al mondo. Contro questa malattia la medicina non dispone attualmente di alcun mezzo.
E dunque anche per questo i medici dell'ospedale pediatrico di Londra, dove il piccolo era ricoverato in terapia intensiva, avevano avvertito i genitori che il figlio non aveva speranze di sopravvivere e avevano loro proposto di staccare il suo supporto vitale.
Connie e Chris Gard volevano tentare una cura sperimentale per la quale avevano avviato una raccolta fondi. Il giudice però aveva convalidato la decisione dei medici. Ai coniugi Gard non restava quindi che tentare ogni possibile via legale, compreso un ricorso alla Corte europea dei diritti dell'uomo, che lo ha però respinto. Secondo la Corte qualunque ulteriore trattamento avrebbe danneggiato Charlie sottoponendolo a «dolore continuo, sofferenza e stress», senza produrre alcun beneficio.
S’intravede qui uno dei problemi morali più complessi e delicati del nostro tempo.
Quando una vita umana appare come sola sofferenza si deve continuare a vivere solo per amore della vita? La domanda ovviamente si pone a ogni uomo quando la sofferenza diventa insopportabile e la malattia è incurabile. Si pone in un modo ancora più drammatico quando la decisione se continuare a vivere o meno passa ad altri, siano essi coniugi, genitori, medici, giudici. È il problema dell’eutanasia, della “buona morte”, che anche la chiesa si pone, ma accetta solo nella sua forma passiva come “lasciare morire”, mai come “far morire”.
Ma lasciar morire è così diverso dall’aiutare a morire? Non si uccide una persona sia affogandola che lasciandola affogare?
In altri termini l’eutanasia passiva è così diversa da quella attiva? Dove sta la differenza? Certo non nell’intenzione, che deve essere sempre orientata alla vita.
La differenza riguarda l’azione: altro è fare, altro non fare.
Il problema è che l’ingresso di tale distinzione nel diritto può offrire una forma legale a ciò che potrebbe essere nei fatti un omicidio. Trasferire a un altro il problema della scelta se continuare a vivere soffrendo, oppure morire per mettere fine alla sofferenza, complica ulteriormente il problema e in ogni caso è un problema che sfugge il più delle volte all’occhio del magistrato.
E tuttavia un punto di equilibrio si può e si deve trovare avvalendosi del cosiddetto principio di precauzione, ma anche di proporzionalità, che permette di eliminare gravi sofferenze senza divenire pretesto di omicidio.
Purtroppo questo principio viene spesso lasciato cadere perché coloro che soffrono senza speranza non sono in grado di porlo e quelli che lo pongono trovano che non ha un interesse sociale diffuso.
Il fatto è che la morte è una realtà troppo presente e troppo rimossa dalla coscienza perché si pensi di consentire di affrontarla con sufficiente libertà e responsabilità.
Se invece di fare di ogni erba un fascio si distinguesse caso da caso tutto diventerebbe più facile. Tale potrebbe essere lo scopo di un’eventuale legislazione che prevedesse i vari contesti e significati che assume di volta in volta il termine eutanasia. Che nel linguaggio tradizionale – non dimentichiamolo – significa “buona morte”, ma troppo spesso finisce per significare sofferenza, solitudine e a volte vera e propria disperazione.