Fine vita, un testo segnato dall'ideologia e lontano dal bene comune
La Camera dei Deputati ha approvato, con un ampio scarto di voti (326 favorevoli, 37 contrari, 4 astenuti), il ddl 1142 sulle Dat. Un testo che, pur ritoccato dall’assemblea parlamentare con l’accoglimento di alcuni emendamenti migliorativi (proposti per lo più da deputati cattolici), nel suo insieme rimane sostanzialmente “irricevibile”.
Tutto secondo copione.
La Camera dei Deputati ha approvato, con un ampio scarto di voti (326 favorevoli, 37 contrari, 4 astenuti), il ddl 1142 sulle Dat. Un testo che, pur ritoccato dall’assemblea parlamentare con l’accoglimento di alcuni emendamenti migliorativi (proposti per lo più da deputati cattolici), nel suo insieme rimane sostanzialmente “irricevibile”, oltre che – lo si verificherà presto – difficilmente applicabile nella concretezza della pratica clinica. Resta solo da vedere ciò che accadrà durante il successivo passaggio del testo al Senato.
Dunque, siamo di fronte ad una legge che – mutuando le recenti dichiarazioni del cardinale Angelo Bagnasco, presidente della Cei –, nella sua attuale formulazione, “rimane lontana da quell'impostazione personalistica che trova riflesso anche nella Costituzione della nostra Repubblica, che tutela la salute come diritto dell'individuo e interesse della collettività. Invece, questo testo è adatto a un soggetto che si interpreta a prescindere dalle relazioni, considerandosi padrone assoluto di una vita che non si è dato”.
Circa i contenuti del ddl, composto da sei articoli, rispetto al testo unico approdato in Aula, poche e non determinanti le variazioni apportate.
Si registra, ad esempio, l’introduzione (art. 1) del divieto, nelle fasi terminali della vita, di accanimento terapeutico, come pure la possibilità del ricorso alla sedazione profonda di fronte a situazione di dolore refrattario ad altri trattamenti.
Vi è poi l’introduzione (art. 1, c. 7) di una formula rafforzativa, che spiega come, a fronte di richieste del paziente di trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali, il medico non abbia obblighi professionali. Una sorta di “obiezione di coscienza” mascherata? A noi sembra proprio di no, vista la genericità della formulazione e l’ambiguità dei termini impiegati.
Rimane il “vulnus” della possibilità da parte del paziente di rinunciare (o sospendere) anche alimentazione e idratazione artificiali, definite come trattamenti sanitari, e ciò indipendentemente dalla propria condizione clinica o dall’efficacia del “trattamento” stesso.
Questa disposizione apre così uno spiraglio a possibili richieste, pur celate nella forma, di eutanasia omissiva (o suicidio assistito) attraverso questa procedura.
L’obbligo di adempiere alla piena attuazione di questa legge, anche nelle sue disposizioni più sensibili sotto il profilo etico, rimane per tutte le strutture sanitarie (comprese quelle “cattoliche”) accreditate presso il Ssn.
È stato, infatti, respinto un emendamento che prevedeva una sorta di “esenzione” per le strutture sanitarie in quanto tali, alla luce della loro carta dei valori interna.
Nel testo approvato, permane anche la vincolatività piena delle Dat (unico caso in Europa!) per il medico, che può disattenderle solo (art. 3, c. 5) qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alle condizioni cliniche attuali del paziente, oppure siano sopraggiunte nuove terapie non prevedibili al momento della loro compilazione.
Suscita molte perplessità e timori anche il ruolo che il fiduciario di un soggetto minore e/o incapace riveste nel rappresentare la sua volontà di cura.
Egli infatti decide autonomamente, senza dover ricorrere al parere del medico; in questo modo, vi è la reale possibilità che tutori, curatori, amministratori di sostegno, ecc…, possano abusare del proprio ruolo per promuovere interessi propri, magari contrari al bene del soggetto che rappresentano.
Infine, vale segnalare nel testo la mancata istituzione di un registro nazionale delle Dat (rimane l’istituzione di registri comunali), con la conseguenza di rendere molto difficile – se non addirittura impossibile – l’applicazione concreta delle Dat, soprattutto nei casi in cui il soggetto che le ha depositate si trovasse, al momento del bisogno, in luoghi diversi e distanti dal proprio comune di residenza.
Certamente, su un tema così delicato e impattante si poteva fare meglio e di più, se la politica non avesse mostrato, ancora una volta, il proprio volto peggiore: quello segnato da furore ideologico e da interessi alieni dal bene comune. Al Senato andrà meglio?