Angelo Ferro, una vita nel solco della migliore tradizione veneta
Angelo Ferro ci ha lasciati; se n’è andato all’eta di 78 anni, nella sua casa padovana, dopo una vita densa di impegni e responsabilità. Da sempre attento alle problematiche di carattere economico e sociale, in lui si ritrovano le cifre di una vita coniugata secondo quei criteri di appartenenza e impegno che hanno caratterizzato gli uomini migliori della società veneta del Novecento.
Poliedrico, dinamico, illuminato: tre aggettivi talmente buoni da essere perfino generici.
Si usano per identificare, o ancor peggio qualificare, il profilo di un uomo che si è occupato di molte cose; che lo ha fatto senza risparmiarsi, in una sorta di moto continuo, di corsa; che è stato sapientemente aperto al nuovo, senza debordare, sgombro da eccessi.
Angelo Ferro, pur essendo stato anche tale, non merita i ristretti confini dettati da tanto angusta definizione; perché lui è stato molto di più.
Chi guarda al suo percorso esistenziale, professionale, umano, con la consapevolezza di una storia e di uno spazio (quello padovano) in cui ha trascorso la sua lunga e feconda esistenza, trova tutti gli elementi di continuità e di inedita originalità, che ne fanno un protagonista, non nel solco dell’ambizione ma della sostanza.
In Angelo Ferro si riposizionano le cifre interpretative di una vita coniugata secondo criteri di appartenenza e di impegno che hanno caratterizzato gli uomini più significativi e i dirigenti autentici della realtà veneta (del secolo scorso?).
È vero: è stato poliedrico; nel senso che si è occupato di molto. Professore universitario, imprenditore, dirigente associativo, intellettuale, “operatore sociale”, perfino politico, quando sedeva sui banchi del consiglio comunale cittadino.
È stato certamente dinamico, fino all’ultimo; mai fermo, sempre in azione, non alla ricerca di sistemazioni o luoghi accomodanti, ma di una concretezza che non si è mai trasformata in appagamento.
È stato anche illuminato, nel senso che non ha mai guardato indietro, ma ha sempre cercato un barlume di luce e di speranza oltre, al di là, nel futuro.
Tutto vero, giusto, comunque insufficiente. Perché restare a quello che Angelo Ferro ha fatto è troppo poco e non gli rende giustizia
Bisogna avere voglia e coraggio di spostare oltre la considerazione, magari sospendendo per ora il giudizio, ma ponendosi una domanda: perché?
Come mai un uomo che poteva fin dall’inizio avere quasi tutto (in fondo era pur sempre figlio di un importante rettore dell’università…), che aveva raggiunto rapidamente una posizione invidiabile, che possedeva i mezzi per fare della rendita una strategia esistenziale, si è dato tanto da fare, si è buttato in mille avventure, ha cercato in ogni modo di vivere all’insegna di impegno e fatica?
La risposta a tali quesiti, confermata personalmente e da chi lo ha conosciuto, è quasi certamente nel senso profondo che Angelo voleva dare alla sua vita, oltre che nella fede e nel desiderio di offrire tracce di praticabilità alla speranza.
In lui si riconoscono i tratti decisivi e conformanti di una tipologia di cattolici nati e cresciuti a Padova nei decenni trascorsi, in momenti non certo facili, in stagioni conciliari di tormento, in un ambito civile spesso terrorizzante, in cui l’amore per l’uomo era il riferimento ultimo a cui ancorare pratiche di condivisione culturalmente ecumenica.
Pochi profili, come quello tratteggiato dalla vita di Angelo Ferro, sono autenticamente padovani: la formazione all’Antonianum dei Gesuiti, l’amore per quello sport, il rugby, giocato con un pallone sbagliato, l’impegno politico di base (quasi obbligatorio), la doverosa carriera universitaria, l’ineludibile vita associativa laica ed ecclesiale, fino all’approdo che per molti, dopo alterne vicissitudini, è stato quello finale e decisivo: la solidarietà sociale, non vissuta come estremo ripiego, ma come straordinaria opportunità di mettere a frutto competenze, abilità, carità.
Adesso, che se n’è andato, rimane la parte gioiosamente (non sembri una contraddizione) più ricca della sua vita: l’eredità.
Come tanti altri interpreti del suo tempo, Angelo Ferro lascia molto: il dovere di coniugare sapere con prassi, la capacità di assunzioni spinte di responsabilità, la scelta dei segmenti deboli della società come approdo operativo, una visione della solidarietà da gestire con cura, competenza e abilità. Un patrimonio.
I beni ricevuti possono essere fatti fruttare o dilapidati: questo è il dubbio da sciogliere e la risposta da dare; al di là delle commemorazioni, in scelte che non tradiscano la memoria.