Nervo e Pasini, la carità come teologia applicata
La vicenda ecclesiale e politica di due preti che hanno segnato la storia del paese e della chiesa con lo sguardo rivolto ai poveri. Il ricordo della chiesa di Padova nell'anniversario della loro scomparsa, le testimonianze di chi con loro ha condiviso l'impegno per una società più giusta.
Don Giuseppe Zanon, dimessamente arguto come sempre, nell’incontro che la chiesa padovana e la fondazione Zancan hanno voluto dedicare a don Giovanni Nervo e a don Giuseppe Pasini, preti che se ne sono andati nel giro di un paio d’anni, tra il 2013 e il ’15, dopo una vita dedicata alla carità e al sociale, prende la parola soltanto nella parte dedicata ai ricordi.
Lui, da decenni, si occupa di confratelli; li conosce a uno a uno e bene: così può permettersi di raccontare, dal punto di vista della realtà presbiterale, chi erano questi due uomini: preti veri, autentici, perfino contraddittori nell’essere grandi riformatori, ma nello stesso tempo legati a una formazione preconciliare, nella quale anche pratiche apparentemente ora desuete, come l’adorazione davanti al corpo di Cristo e il rosario, avevano e hanno un valore ancora decisivo.
Don Giuseppe racconta di uomini attenti ai temi del sociale, alla dimensione politica delle questioni, ai poveri, ma che alla fine trovavano ispirazione e forza per esercitare tutto ciò in una spiritualità solida e raffinata.
Preti padovani (come don Luigi Mazzucato, fondatore del Cuamm, o don Luigi Sartori, teologo), dice, frutto di una chiesa che non ama le star, i geni, ma l’ordinarietà di un servizio profondamente radicato nella fede e nel senso di appartenenza da presbiteri alla comunità dei credenti.
Potrebbe sembrare riduttivo, ma quello posto da don Giuseppe alla fine è stato il tassello decisivo, che ha rimesso in ordine la gerarchia delle cose e delle vite, di percorsi esistenziali densi, ricchi, importanti per molti e perfino per l’Italia, che vanno letti e già interpretati da angolature diverse.
Come fa il vicario generale, don Paolo Doni, che cerca di mettere chiarezza, a se stesso, ai molti presenti nella sala Barbarigo del museo diocesano, su quale teologia della carità abbia sostenuto l’agire di don Giovanni e don Giuseppe. Operazione quasi disperata, perché la straordinaria ricchezza di questi preti stava proprio nel non avere un rigido apparato dottrinale di riferimento, non possedere un approccio accademico e sistematico ai vari temi: la loro caratteristica, forte e marcata, era la pratica di una teologia incarnata; la loro fatica è stata quella di vivere all’insegna di una teologia del quotidiano.
Con dei punti di riferimento chiari e inequivocabili, a partire dai testi conciliari, dalla Gaudium et spes (ma anche dalle encicliche di Paolo VI, la Popolorum progressio e la Octuagesima adeveniens), non interpretati come indicatori di prassi, ma strumenti per cogliere una prospettiva, un rapporto nuovo con un mondo talora indecifrabile e comunque ancora troppo ingiusto.
La dimensione "politica" della carità
Nel quale, proprio le diseguaglianze e la conseguente carità, dovevano fare il grande salto dalla dimensione della beneficenza personale a quella del “gesto” politico.
Insomma, la straordinaria novità di don Giovanni e don Giusppe è stata quella di trasformare la carità stessa in problema della collettività, delle istituzioni, della convivenza, di tutti.
Resta, lo ammette anche don Paolo, il tema suggestivo di capire perché queste due figure di preti («amati, ma anche criticati») sono apparse sulla scena della vita della chiesa padovana e soprattutto quale sia l’eredità ora da non disperdere.
A dire il vero, don Giovanni e don Giuseppe non sono rimasti inerti di fronte alla prospettiva del futuro dopo di loro
La continuazione dell’opera intrapresa è già in buone mani, almeno per quanto riguarda l’attenzione al sociale, ai poveri, al welfare, ai diritti dei cittadini, di tutti, anche di quelli che non hanno nulla. A tutto questo continua a guardare, con rigore e disincanto, la fondazione Zancan, la creatura di pensiero e ricerca dei due sacerdoti.
Tiziano Vecchiato, l’attuale direttore, racconta com’è cambiato l’agire dell’ente negli ultimi anni, soprattutto attraverso l’elaborazione di quel rapporto sulla povertà giunto già alla quarta edizione; non un’operazione di patologia anatomica dei mali sociali, ma il tentativo di andare oltre, di lanciare delle prospettive.
L'orizzonte del welfare generativo
L’approdo (per il momento) è stato quello della demolizione del welfare tradizionale, quello che si limita a distribuire assistenza e quattrini, per giungere a una ipotesi generativa, in cui «l’aiutato aiuti», trovando, in questo suo essere protagonista e non solo beneficiario, inediti spazi di rinnovata dignità e innovativa cittadinanza. «Perché – spiega Vecchiato – non ce la faremo mai a sconfiggere la povertà se ci affideremo soltanto alla solidarietà, di molti, ma pur sempre pochi. Occorre che sconfiggere la sofferenza pratica dell’esistere sia un dovere di tutti (anche di chi è immerso nel disagio) e come tale un compito anche sociale».
Il programma è chiaro (in proposito una legge sul welfare generativo è già stata presentata), anche se evidentemente c’è ancora molto da lavorarci.
L’incontro, dedicato alle “gemme di speranza e cambiamento sociale”, non poteva andare oltre; i ricordi (quelli dei colleghi della Caritas italiana, di don Luca Facco, attuale direttore della Caritas diocesana, ma anche di Flavia Franzoni, moglie di Romano Prodi) poi hanno avuto il sopravvento; nulla di celebrativo, anzi solerti esortazioni a non disperdere, a saper vedere sempre il buono e i germogli che, nonostante la durezza dei tempi, sbocciano comunque (don Luca Facco).
Sullo sfondo, don Giovanni e don Giuseppe: molto di più di nostalgici ricordi, piuttosto memorie di una presenza feconda, forse mai come ora.