Povertà, lottiamo. Ma con le armi sbagliate
Nonostante le risorse investite, cresce ancora il numero degli indigenti. Secondo l’Istat, il 23,4 per cento delle famiglie vive in una situazione di disagio economico, per un totale di 14,6 milioni di individui. Per il Censis, nel nostro paese vi sono 17,32 milioni di persone a rischio di povertà o di esclusione sociale, Dal Rapporto 2015 della Fondazione Zancan la richiesta di un deciso cambio di rotta, per attuare un vero welfare generativo e spendere meglio, a tutti i livelli.
I poveri? Crescono.
Sarà colpa del sistema, sarà per via di una crisi struggente e selettiva, sarà anche perché le modalità di lotta al disagio e alla carenza di mezzi di molti sono sempre più inadeguate, non soltanto in termini di risorse; il risultato comunque non cambia: aumentano, in Italia ma non solo, i cittadini e le famiglie che patiscono per indigenza.
Anche in questo ambito i dati possono essere un po’ ballerini, variabili, soggetti a interpretazioni, ma alla fine convergono tutti in valutazioni linearmente riconducibili ad alcuni macrofenomeni su cui c’è poco da discutere.
Forse per questo, il rapporto della fondazione Zancan sulla lotta alla povertà nel 2015, intitolato Cittadinanza generativa (edizioni Mulino), non trova di meglio che affidarsi a una serie di fotografie della povertà stessa.
Un'Italia sempre più in affanno
C’è quella scattata dall’Istat, ad esempio, che afferma che «il 23,4 per cento delle famiglie vive in una situazione di disagio economico, per un totale di 14,6 milioni di individui».
Per il Censis, nel nostro paese vi sono 17,32 milioni di persone a rischio di povertà o di esclusione sociale, con un aumento di oltre 2,2 milioni negli ultimi sei anni di crisi.
Il tasso di cittadini in pericolo è pari al 28,4 per cento, superiore a quello della Spagna (27,3), del Regno Unito (24,8), della Germania (20,3) e del valore medio dell’Unione europea (24,5).
Non basta: si inaspriscono anche le diseguaglianze sociali; nell’ultimo anno gli operai hanno subito un taglio della spesa media familiare mensile del 6,9 per cento, gli imprenditori (in senso lato) del 3,9, i dirigenti dell’1,9.
Secondo l’Ocse, poi, nei tempi recenti, articolarmente duri, la povertà in Italia è aumentata in modo marcato per giovani e giovanissimi; la fascia con il maggior tasso di carenza di risorse sono gli under 18, con il 17 per cento, 4 punti percentuali in più della media Ocse, seguiti dalla categoria 18-25 anni (14,7). Sono solo istantanee, che pur nella loro parzialità esprimono una situazione di crescente disagio.
A questo punto la domanda che si impone è altrettanto ovvia dell’iniziale constatazione: forse da noi i poveri si incrementano perché non li aiutiamo (e non spendiamo) abbastanza?
Su tale quesito la fondazione Zancan la pensa un po’ diversamente. La spesa totale per le prestazioni di protezione sociale in Italia, infatti, secondo il rapporto, non è diversa dai valori che si riscontrano nei paesi europei; differente invece è l’impiego delle risorse: nel 2012 il 60 per cento della spesa nazionale era destinato ad anziani e «superstiti» (in gran parte pensioni, dirette o di reversibilità), contro il 46 per cento in media nei paesi dell’Ue. Spendevamo invece il 4,2 per cento del totale a sostegno di famiglia, maternità e infanzia, contro quasi il doppio (7,8) in media nell’Ue.
Nel 2012 in Italia il 90 per cento dei circa 50 miliardi di prestazioni assistenziali veniva erogato sotto forma di trasferimenti monetari. Nel 2007 erano 1,8 milioni le persone in povertà assoluta, nel 2014 sono salite a 4,1 milioni (più 129 per cento in sette anni).
«Il confronto con alcuni paesi sottolinea ancor più chiaramente la scarsa efficacia del nostro sistema di welfare: si è stimato che, intorno al 2010, in Italia appena il 9 per cento di tutti i trasferimenti monetari pubblici era diretto al quinto più povero della popolazione, contro il 21,7 in media in tutti i paesi Ocse».
La fondazione Zancan valuta che in Italia, per ogni milione di euro messo in trasferimenti sociali (escludendo le pensioni), il numero di persone a rischio di povertà (dopo tali trasferimenti) si riduce di 39 unità, mentre nell’Unione europea il dato medio è di 62 persone; significa che la spesa nazionale è in grande affanno nel compito di abbattere la povertà. Gli oltre ottomila enti locali affrontano l’impoverimento della popolazione senza orientamenti condivisi; la forbice va da 24,6 euro a 277,1 euro pro capite: nello specifico da 6 a 77,3 euro per la spesa per persone in disagio economico; da 2,2 a 32,6 euro per il contrasto dell’indigenza; da 4,3 a 24,1 euro per il disagio economico di bambini e famiglie; da 0,5 a 30 euro per le sofferenze delle persone anziane.
Serve un nuovo paradigma
"I contesti sociali e umani sono più precari, ad alto tasso di varibilità, con inedite configurazioni di bisogni. Pensare di affrontarli con soluzioni tradizionali non è possibile"
Insomma, dopo tale analisi, il dubbio è legittimo: vuoi vedere che la nostra lotta alla povertà è sbagliata? Che usiamo male le armi a disposizione?
«Il welfare tradizionale – spiega Tiziano Vecchiato, direttore della fondazione Zancan – di tipo assicurativo, basato sulla dinamica del raccogliere e redistribuire, ha dato quello che poteva e ora non è più in grado di affrontare le sfide. I contesti sociali e umani sono più precari, ad alto tasso di varibilità, con inedite configurazioni di bisogni. Pensare di affrontarli con soluzioni tradizionali non è possibile, con istituzioni in crisi di legittimazione proprio sul terreno della capacità di risposta ai bisogni umani fondamentali».
Dietro a tutto questo c’è una considerazione di base: non siamo stati capaci di ridurre veramente la miseria, anche se abbiamo garantito alcuni diritti.
«L’approccio individualistico ai diritti sociali – sostiene ancora Vecchiato – ha via via compromesso la loro sostenibilità. È urgente una riconfigurazione verso “diritti a corrispettivo sociale”, capaci cioè di garantire un adeguato dividendo sociale».
Come dire: la distribuzione di quattrini (molto alta nel nostro paese, circa 750 euro pro capite, cresciuta nel tempo, che valgono complessivamente circa 45 miliardi all’anno, dati anche a chi non ne ha bisogno) non ha risolto in Italia il tema della lotta alla povertà, che invece continua a crescere.
E allora, la domanda, ineludibile, si sposta: se non i soldi distribuiti (anche in maniera non equa), cosa può aiutare veramente i poveri a uscire dalla loro condizione di indigenza?
«L’idea che avanziamo è quella della cittadinanza generativa, vale a dire impostare un nuovo modello di welfare che non sia più basato sulla semplice riscossione di diritti individuali. Il nostro welfare oggi è di tipo assicurativo, capace soltanto di raccogliere e redistribuire; ora abbiamo la possibilità di passare a un sistema capace di investimento, facendo interagire la variabile fondamento del modello “generativo” con azioni che implichino la restituzione, la rigenerazione, la responsabilizzazione. In un diverso paradigma, insomma, ogni aiutato può contribuire a moltiplicare i valori a disposizione grazie a catene di valore gestibili con la logistica dei doveri».
Parole impegnative, che nella concretezza significano dar meno soldi, meno quattrini sotto varie forme di integrazione, sviluppare i servizi e soprattutto chiedere che chi è aiutato “ritorni” socialmente i frutti di tale sostegno.
Intanto però il governo Renzi promette 360 euro a famiglia indigente…
«Questo è un altro discorso, che riguarda più l’ambito della gestione del consenso che non delle povertà», taglia corto il direttore della Zancan.