16 dicembre 1943: 75 anni fa il bombardamento che sconquassò l'Arcella e i sogni degli arcellani

Era il 16 dicembre 1943, una giornata fredda, ma nitida e soleggiata, il tempo ideale per gli aerei degli Alleati dell'aviazione anglo-americana per scaricare bombe mortali. Erano le 13, ora di pranzo, e 72 aerei in sei minuti scaricarono sui binari della stazione ferroviaria e sulle case della prima Arcella duecento tonnellate di bombe. I morti in solo quella occasione furono duecento. Nei quasi due anni di terrore, il bilancio è il più grave tra tutti i quartieri della città: circa 400 morti e oltre 500 tra feriti e invalidi; le bombe radono al suolo il 90 percento degli edifici, compresi scuole e cimitero

16 dicembre 1943: 75 anni fa il bombardamento che sconquassò l'Arcella e i sogni degli arcellani

“Cadevano le bombe come neve”, cantava Francesco De Gregori nella canzone San Lorenzo, l’omonimo quartiere di Roma che il 19 luglio 1943 fu devastato dal massiccio bombardamento degli Alleati statunitensi su Roma, durante la seconda guerra mondiale. Cadevano bombe come neve, non fosse altro che per il periodo invernale, anche a Padova, anche sul quartiere Arcella, a partire da un freddo giovedì di dicembre.

Era il 16 dicembre 1943, una giornata fredda, ma nitida e soleggiata, il tempo ideale per gli aerei degli Alleati dell'aviazione anglo-americana per scaricare bombe mortali. Erano le 13, ora di pranzo, e 72 aerei in sei minuti scaricarono sui binari della stazione ferroviaria e sulle case della prima Arcella duecento tonnellate di bombe. I morti in solo quella occasione furono duecento. Furono rase al suolo quasi tutte le case che si trovavano tra la stazione e la chiesa di Sant'Antonino, che, assieme al suo campanile, rimase incredibilmente illesa. Leopoldo Saracini nel libro “Padova Nord”, racconta che il primo attacco aereo inaugura fino alla primavera del 1945, quasi due anni di terrore per gli abitanti costretti a fuggire nelle campagne per trovare rifugio. Il bilancio è il più grave tra tutti i quartieri della città: circa 400 morti e oltre 500 tra feriti e invalidi; le bombe radono al suolo il 90 percento degli edifici, compresi scuole e cimitero.

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Case Scaroni - Via P. Selvatico

Lo sfollamento durato un anno e mezzo

La foto dell’articolo, realizzata sovrapponendo dallo stesso punto prospettico un vecchio scatto della chiesa di Sant’Antonin vista da via Jacopo da Montagnana, dà senso dell’immane tragedia e della desolazione che regnava attorno. L’episodio più grave avvenne davanti al cinema Astra, che a quel tempo si chiamava Regina: le bombe colpirono il fabbricato che sorgeva di fronte al cinema, all'angolo tra via Tiziano Aspetti e via del Pordenone, i cui scantinati fungevano anche da rifugio antiaereo. Fu una carneficina.

Gianfranco Giorio, uno dei superstiti di quei bombardamenti di 75 anni fa, sulla pagina Facebook “La vecchia Padova”, scrive il suo ricordo, inevitabilmente marchiato e indelebile: «Tutti ci auguravamo che, come già altre volte, gli anglo-americani si limitassero al sorvolo ed andassero a scaricare il loro carico di morte verso Marghera. Improvvisamente, vedemmo staccarsi le bombe dagli aerei, come dei puntini che, velocemente, si ingrandivano e cominciarono le esplosioni che, ricordo ancora oggi, ci rompevano dentro. Le varie ondate si susseguirono e noi stesi, in via Furlanetto, nel cortile di casa ad aspettare che si esaurisse quella furia omicida. Appena possibile, con mio padre, con una leggera ferita di schegge alla testa fuggimmo terrorizzati, a piedi verso Pontevigodarzere e tra le campagne limitrofe portando negli occhi di bambino le immagini della distruzione della nostra Arcella. Cominciò lo sfollamento che si protrasse per 18 lunghi mesi».

“Ci rompevano dentro”, è la sensazione provocata da quelle bombe “a farfalla”, grappoli di piccole dimensioni, racchiuse in un apposito contenitore, il quale dopo pochi secondi dallo sgancio si apriva, liberandole. Le M83, questo il nome tecnico di tipo americano, si sparpagliavano nel cielo, scendendo lentamente verso il suolo rallentate ciascuna dal proprio involucro esterno. Giunte al suolo, alcune esplodevano all’impatto, mentre la parte più grande si adagiava sul terreno senza dare luogo ad alcuna detonazione, rimanendo però attiva ed esplodendo dopo un certo ritardo. Bastava una vibrazione, un movimento anche minimo e la farfalla esplodeva, riempiendo il corpo della vittima di innumerevoli schegge.

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Via T. Aspetti Tram colpito dalle bombe

"Non ricordo di aver mai sentito i miei genitori pregare assieme, ma quella volta lo fecero"

Guido Caburlotto aveva quatto anni, era un bambino arcellano i cui occhi sono segnati a vita da flashback che ciclicamente ritornano a galla. Il suo è un ricordo limpido nella sua tragedia: «Ricordo di aver sentito suonare la sirena d’allarme, come tante altre volte, allora si scappava in mezzo a campi non molto lontani, e ci si metteva dentro ad un fosso senza acqua dalle parti della Strada del Giglio. Questa volta la fuga ci fu impedita dal cupo ronzare di una miriade d’aerei che subito fu seguito da terrificanti esplosioni. Ci ritrovammo nell’angolo lontano dalla saracinesca d’ingresso del nostro garage, io in braccio a mio padre e mia sorella in braccio a mia madre. Non ricordo di aver mai sentito i miei genitori pregare assieme, ma quella volta lo fecero. Il frastuono era inaudito e sento ancora l’odore della polvere da sparo, acre, e tutto era avvolto in una densa nuvola gialla che si vedeva di là dalla piccola finestra del nostro improvvisato rifugio. 
I miei occhi impauriti vedevano la saracinesca ondeggiare violentemente ad ogni nuovo scoppio, e tremavo tra le braccia tremanti di mio padre. Il rifugio era tanto improvvisato quanto inadeguato, infatti, sopra di noi c’era solo il bagno con il tetto a terrazza e se uno di quei micidiali ordigni che piovevano dal cielo fosse caduto sopra di noi, certamente non sarei qui a raccontarlo. Certo non capii subito il pericolo corso, ma presto presi coscienza di cosa fosse un bombardamento aereo. Io e la mia famiglia siamo stati sotto il bombardamento più grave che ha colpito Padova: il bersaglio di tanta furia era la non lontana stazione ferroviaria, ce ne rendemmo conto quando, smarriti e ancora tremanti ci siamo visti chiedere aiuto da una donna che veniva da là, forse una vicina, che tutta insanguinata chiedeva acqua per togliersi di dosso sangue non suo, ma di feriti che aveva soccorso, o di morti che aveva dovuto spostare. 
Il gesto del rubinetto che mio padre apriva e, sorpreso, costatava che neanche l’acqua era stata risparmiata, il ripiego sulla bottiglia dell’alcool, il rapido ripulirsi della sconosciuta, furono gli ultimi gesti che ricordo prima di uscire da casa e salire in canna alla bicicletta di uno dei miei genitori. Fuori ci attendeva una dura realtà. 
Vedemmo la gente, i nostri vicini, spauriti, feriti, che attendevano un aiuto che tardava a raggiungerli. Il barbiere abitava a due passi da noi appena dopo il ponticello che attraversava una canaletta. Era là seduto su di una seggiola impagliata il capo fasciato da una benda zuppa di sangue. Attorno la gente, attonita e silenziosa, con qualche lacrima agli occhi. 
Il tratto di strada tra le case fu breve, e brevi sono i ricordi di quell’umanità offesa e ferita.
Io che credo che in quella giornata il mio angelo custode abbia proprio fatto lo straordinario per me, ed io, senza ringraziarlo, correvo verso la campagna con i miei, vivo e incosciente del pericolo corso.
Ci allontanavamo dalla città fuggendo una guerra che io bambino cominciavo a conoscere e odiare, e che marcava in me il primo ricordo cosciente della mia vita».

Nella desolazione generale, il campanile del Santuario dell’Arcella rimane saldamente in piedi, rappresentando l’icona della rinascita del quartiere. Questo demarca un passaggio importante nella cronologia dell’Arcella. E’ a partire da questo istante che i cittadini dimostrano il loro legame con il territorio: alcuni scelgono di trasferirsi in altre zone della città, ma in molti preferiscono rimanere e rimboccarsi le maniche per ricostruire la propria casa e per mantenere salda la comunità che, successivamente, troverà risorse e lavoro sulla spinta della macchina industriale messa in moto nuovamente grazie a realtà produttive come la Golfetto, la Sangati, la ditta Pessi o la fornace Morandi.

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