Il Veneto è una città infinita in cerca di identità
Nel 2015, il Censis ha individuato nel cuore del Veneto una “regione urbana” lungo l’asse Padova, Treviso, Vicenza fino a lambire Venezia. Si può parlare di città infinità, dunque? La prima puntata della nostra inchiesta, in viaggio tra il Veneto di oggi e il Veneto che verrà.
«La nostra idea di città è strettamente legata al nostro modo di vita. Il nostro modo di vita sta cambiando così rapidamente che la nostra idea di città non è in grado di svilupparsi simbioticamente allo stesso ritmo».
La riflessione del filosofo Jürgen Habermas si inserisce in un ampio flusso d’indagini attorno alla proiezione futura delle città, che sempre più vanno perdendo coordinate precise e nette.
Se negli Stati Uniti esistono realtà metropolitane che senza soluzione di continuità si estendono anche su stati differenti, in Italia, mentre nel dibattito si moltiplicano i riferimenti alla città infinità, diffusa o anche “in formazione”, esistono esperienze che si stanno velocemente saldando tra loro.
Fattori sociali, demografici e lavorativi hanno messo in discussione il tradizionale agglomerato urbano compatto.
Il Censis, il centro studi investimenti sociali, nel 2015 ha individuato nel cuore del Veneto una “regione urbana”, che corrisponde alla conurbazione costituita lungo l’asse Padova, Treviso e Vicenza fino a lambire Venezia, che però mantiene la sua differente identità lagunare.
Al di là dei nomi e delle etichette, Gianpiero Dalla Zuanna, professore ordinario di demografia a Padova, è convinto che ci siano analogie e uniformità che legano effettivamente questo territorio.
«L’area ha un tale grado di omogeneità che non è possibile marcare in maniera netta i suoi confini: possiamo dire che a est giunge fino al Piave perché poi il territorio cambia fisionomia, così come analoghi confini sono a nord le Prealpi e al sud le zone che anticamente erano acquitrinali. Questo ha portato a una costruzione identitaria solida e storica nella comunità: l’agricoltura era basata sulla piccola proprietà e a questa si accostavano città di grandezza media ma con una forte rilevanza come Padova, Vicenza o Treviso.
Ma la caratteristica, unica in Italia, è stata la “casa sparsa”, che ha determinato l’evoluzione successiva: la popolazione, invece di concentrarsi in nuclei urbani, ha conservato nei secoli la propria abitazione accanto ai campi. Da qui è partita la spinta all’industrializzazione diffusa e polverizzata,
disseminata di capannoni costruiti vicino alla case, tracciando un’unica zona non più distinguibile proprio perché percorsa e ramificata in tutta la sua dimensione».
Dal punto di vista identitario delle popolazioni, analizzando tradizioni, impostazioni sociali anche legate all’esigenze lavorative, si può parlare di continuità in questo Veneto che non è né montano, né lagunare?
«L’identità storicamente si è costruita attorno ai piccoli centri di riferimento, la stessa struttura ecclesiale era sagomata in relazione a questo denso pulviscolo abitativo. Questo da un lato ha creato reti più fitte e commistioni, ma ha anche fatto sì che nella nostra regione non sorgesse mai un grande centro urbano come Milano, Torino, Roma o Napoli».
Ma oggi qual è il modo ottimale per governare questa struttura che concretamente non ha più confini?
«Il sistema dei comuni, che è ancora impostato su una mentalità di due secoli fa, non è più funzionale. È evidente che dobbiamo riprendere in mano alcuni ragionamenti come quello sulla Grande Padova, in cui i comuni del circondario e la città si uniscono per costruire un’integrazione maggiore. Perché se parliamo di connessioni e analogie nel territorio veneto, Padova rappresenta nei fatti una realtà di 500 mila abitanti, anche perché negli ultimi 30-40 anni c’è stato un enorme spostamento di residenti che hanno preso casa fuori, mantenendo però legami e reti in città. Di fatto le aree esterne sono ormai quartieri di Padova. La strada giusta è quella di avere un coordinamento forte e superiore alle logiche dei partiti con un’ottimizzazione dei servizi».
Questi flussi continui hanno trasformato e mescolato vecchi ruoli. Non si parla più del “primo popolo” che abitava il centro e del “secondo popolo” che stava in provincia. Nel profondo esiste già il seme della città infinita?
«È l’area con la più alta densità abitativa, in cui si potrebbe già concretamente pensare a una vera città diffusa con più di un milione di cittadini.
Certo non c’è una concatenazione urbana vera e propria, ma se la si integra con un sensato sistema di trasporti allora tutto avrebbe ragione d’esistere. Pensiamo a una circolare che passa ogni 10 minuti unendo Padova, Castelfranco, Treviso e spingendosi fino a Mestre con parcheggi scambiatori.
I "treni" per l’Europa passano da qui, è necessario cambiare modo di ragionare perché tutta la struttura possa trovarne giovamento. Con lungimiranza, oltre l’idea politica legata alla tradizionale città compatta, ma mantenendo dei punti nevralgici centrali come i poli sanitari o economici. A Londra ormai i giovani non comprano più l’auto perché il sistema dei trasporti funziona. La si usa solo nel weekend per andare via: a questo si deve arrivare anche da noi».
I treni per l’Europa passano anche per la cultura vista come ponte di saperi di paesi differenti, oltre che per l’innovazione scientifica e tecnologica. Sono trampolini imprescindibili?
«Di recente 13 dipartimenti padovani sono stati premiati come punti d’eccellenza: è una cosa straordinaria se si pensa che Padova ha 36 dipartimenti e che a livello nazionale solo Bologna, con 14, ci è stata superiore. Noi disponiamo di una struttura di saperi fantastica, il nostro sistema di conoscenza e di apertura internazionale non è secondario a nessuno. Bisogna fare un passo in avanti, andare al di là dei campanilismi, per poter fare grandi investimenti. È necessario dialogare: pensiamo al Veneto manifatturiero e alle risorse che potrebbero derivarne se riuscissimo ad attuare un coordinamento tra sistema industriale, produttivo e universitario, mondi che non possono certo basarsi sui confine comunali. Mettere assieme tanti soggetti differenti per raggiungere l’ottimalità, ossia la dimensione giusta ed efficace rispetto al problema che si ha. Questo deve essere l'obiettivo, perché senza questa mentalità non saremo mai proiettati in avanti».