Cultura e società. Fabris: “Le parole influenzano il modo in cui guardiamo il mondo, possono creare ponti o distruggere relazioni”

Dalla decisione della Cassazione di usare la dicitura "genitore" e non "padre e "madre" nella carta d'identità elettronica dei figli alle parole di rottura di Trump e a quelle di condivisione di re Carlo III: il professore di Filosofia morale e di Etica della Comunicazione all’Università di Pisa analizza l'impatto del linguaggio oggi

Cultura e società. Fabris: “Le parole influenzano il modo in cui guardiamo il mondo, possono creare ponti o distruggere relazioni”

Le parole pesano e influenzano anche il modo in cui guardiamo il mondo, veicolano mentalità. Ne è convinto Adriano Fabris, professore di Filosofia morale e di Etica della Comunicazione all’Università di Pisa, che mette in guardia dall’appiattimento di ruoli e relazioni nella società odierna che deriva proprio dall’uso delle parole, che “sono come pietre”, ci dice. Questo è il rischio che si può incorrere anche nella questione sollevata dalla Corte di Cassazione, secondo cui sulla carta d’identità elettronica dei figli l’indicazione corretta è “genitore”, non “padre” e “madre”. Per la Cassazione, “la dicitura ‘padre/madre’ sulla carta d’identità elettronica è discriminatoria perché non rappresenta tutti i nuclei familiari e i loro legittimi rapporti di filiazione. L’indicazione corretta è dunque ‘genitore'”. Una decisione che vuole evitare discriminazioni, eppure con una ricaduta sulla mentalità corrente proprio per il potere delle parole di influenzare il pensiero. “Un appiattimento del linguaggio impoverisce anche le relazioni”, ci spiega. Una riflessione che continua nell’analisi delle recenti affermazioni di Trump a proposito dei dazi e del re Carlo III al Parlamento italiano.

Professore, cosa pensa della decisione della Corte di Cassazione?

Possiamo comprendere le buone intenzioni che incidono su questa decisione e non possiamo non considerare con rispetto la presenza di genitori che possono essere dello stesso sesso, ma quello che non può essere dimenticato è che l’utilizzo di un’espressione così generale come genitore, semplicemente distinto da un numero, 1 e 2, rischia di impoverire il nostro linguaggio e di impoverire, di conseguenza, le nostre relazioni.

Questa decisione può avere certamente un riflesso sulla mentalità comune per quanto riguarda il ruolo che ciascun genitore ha e deve avere nell’educazione dei figli. Parole importanti nella nostra cultura e nella nostra tradizione come padre e come madre esprimono specifiche differenze, specifici compiti, specifiche responsabilità, che possono essere certamente condivise dai genitori, ma che individuano ruoli precisi. Non possono essere dimenticati e appiattiti in una categoria così generica come quella di genitore semplicemente diversificato da un numero.

Sto parlando di ruoli, quindi non mi sto muovendo solo su un piano biologico, ma su un piano culturale, di responsabilità, di educazione, di insegnamento e di riferimento per quanto riguarda i figli. Appiattire i ruoli propri del padre e della madre in una generica funzione di genitore in maniera indistinta è un altro esempio di quella tendenza all’indifferenza, all’eliminazione delle differenze che caratterizza il nostro tempo. Questa eliminazione delle differenze, se può essere utile per rendere più funzionale e intercambiabile il comportamento delle macchine e dei sistemi automatizzati, finisce per impoverire nella maniera più forte quelle che sono le caratteristiche, le possibilità, le realizzazioni che sono proprie e specifiche degli esseri umani. Questa riflessione è per me necessaria proprio per le conseguenze che un certo modo di pensare veicolato dalle parole può avere nella nostra società e nella mentalità comune.

Nella società attuale cosa fa paura delle differenze?

È un po’ paradossale: in questo momento sembra che ciascuno voglia rivendicare la propria differenza, il proprio gusto particolare, ma se ognuno banalmente rivendica nelle piccole cose la propria diversità paradossalmente è identico agli altri in questo rivendicare la sua piccola diversità. Quello che va perduto in questo modo è costituito dalle grandi differenze che caratterizzano gli esseri umani: le differenze tra gli esseri umani e i sistemi automatizzati meccanici, la differenza tra gli esseri umani e gli altri animali non umani, la differenza anche all’interno degli esseri umani secondo macro categorie. Queste grandi differenze sono importanti perché solo così è possibile attuare una relazione davvero produttiva. Una relazione produttiva non si ha tra persone omologate, uguali, indifferenti, appiattite. Una relazione produttiva si ha tra persone che si attraggono perché sono una diversa dall’altra. Questa differenza non è una contrapposizione, ma l’occasione di un incontro e di un arricchimento reciproco.

Nella nostra società, invece, si preferiscono le contrapposizioni, le polarizzazioni, le differenze portate all’estremo. L’alternativa è l’omologazione.

In questo senso si può pensare all’uso di termini omologanti come quelli di cui stiamo parlando.

Il politically correct a volte non rischia di fare danni?

Sì, c’è il rischio di discriminare, nel nostro caso, le persone che possono rivendicare il loro ruolo in maniera responsabile. È un discorso di giustizia, che è ciò che riesce a evitare la discriminazione di qualcuno.

Quale linguaggio deve essere usato per non discriminare sia situazioni particolari come figli di genitori dello stesso sesso sia famiglie tradizionali?

Si tratta di tenere conto davvero delle esigenze di tutti, forse – se fosse giuridicamente possibile – si dovrebbe permettere la scelta di scrivere sulla carta d’identità genitore 1 e genitore 2 oppure padre e madre per chi vuole rivendicare questo ruolo.

Forse così si potrebbero rispettare le pari opportunità di tutti, senza imporre una posizione appiattente anche a chi non considera questa la soluzione più adatta.

Il linguaggio influenza il modo di pensare: in questo caso quali sono i possibili rischi?

Il nostro modo di esprimerci è il modo in cui noi guardiamo il mondo e abbiamo una prospettiva sul mondo.

Il genitore è modello per i figli, è colui o colei che può dire di sì o di no e tutto questo viene fatto nelle maniere che sono proprie delle singole persone e di determinati ruoli che sono incarnati nel padre e nella madre all’interno di una collaborazione. Se tutto questo viene appiattito in una maniera indifferente e soprattutto se non interessa dare un riferimento ai figli in maniera differenziata pur collaborando tra padre e madre, rischia di venire meno il ruolo maggiormente normativo o maggiormente disponibile e aperto verso il bambino. Dal punto di vista culturale si rischia di avere un impoverimento della capacità e della strategia educativa che possono essere produttivamente messe in campo per tirare su adeguatamente i propri figli. È importante considerare quello che comporta usare una certa parola.

Le parole sono anche pietre: orientano, indirizzano, guidano, ci danno l’accesso al mondo e veicolano mentalità.

A questo proposito, per motivazioni opposte, colpiscono recenti affermazioni del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, che ha usato espressioni volgari per parlare di coloro che lo corteggiano per la questione dei dazi, e del re Carlo III che ieri ha parlato in parte in italiano nel suo discorso a Montecitorio, nel quale ha fatto riferimento a Dante e ha evidenziato che “siamo due popoli e due nazioni le cui storie sono intrecciate tra loro e con quelle del continente europeo”. Partiamo dalle parole di Trump: certe parole quando vengono da un’istituzione sono ancora più pesanti?

Le parole hanno la capacità di gettare ponti oppure hanno anche la capacità di distruggere le relazioni,

per questo devono essere maneggiate con cura e in maniera competente, attenta a quelle che possono essere le conseguenze di certi usi.

Nel caso di Trump le parole diventano davvero una espressione, una manifestazione che rafforza i suoi atteggiamenti di prevaricazione, di violenza, di guerra dichiarata in varie forme. Non solo: diventano anche la manifestazione di una umiliazione che si vuole fare impedendo così la creazione di un dialogo produttivo e diventando soltanto funzionali a una offesa, a un atto di violenza.

Ben diverse le parole del re…

Re Carlo III ha dimostrato proprio ieri come l’uso delle parole serva a costruire rapporti.

Lo ha fatto volutamente parlando anche la lingua italiana. Lo ha fatto utilizzando la consueta ironia che lo contraddistingue. Lo ha fatto con i contenuti di quelle parole che realmente volevano costruire non solo un rapporto tra il Regno Unito e l’Italia, ma più in generale, a partire da qui e come modello conseguente di questo rapporto, riallacciare e rilanciare le relazioni all’interno dell’Unione europea. Sono state parole che hanno fatto riferimento proprio ad una tradizione comune, a un pensiero comune, tanto più importanti in quanto re Carlo d’Inghilterra è stato nella giornata di ieri anche in udienza privata da Papa Francesco ed è, non dimentichiamolo, il capo della Chiesa anglicana.

Nel dire queste parole di unione, di raccordo, di richiamo ad una tradizione comune, c’è anche implicitamente il ricordo e la consapevolezza che questa tradizione è fatta anche di elementi religiosi condivisi.

A livello istituzionale sarebbe importante pensare a cosa si dice?

Le istituzioni utilizzano un linguaggio specifico loro, burocratico, non sempre comprensibile. O quantomeno rispecchiano certe mode o certi modi di pensare che si ritengono mainstream. In questa forma, purtroppo, l’istituzione rischia di perdere il suo ruolo di indicazione, di punto di riferimento e di capacità anche di ordinare e organizzare le conoscenze, le decisioni, i saperi.

L’istituzione dovrebbe dare indicazioni per costruire, gettare ponti, creare un terreno comune in cui tutti si possono ritrovare. Non sempre, purtroppo, oggi ciò accade nella misura in cui anche determinate istituzioni, lo vediamo, diventano partigiane e questo è proprio contro il senso dell’uso delle parole.

Le parole molto spesso sono concetti, cioè sono qualche cosa che viene condivisa, sono qualche cosa che non rimanda alle esigenze o ai bisogni dei singoli, della particolarità, ma proprio per la loro generalità riescono a creare una dimensione condivisa, un’atmosfera condivisa. L’istituzione dovrebbe fare questo, anche nell’uso delle parole.

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Fonte: Sir