Perché non possiamo stare senza Europa. La lezione di Draghi: serve una visione, serve la politica
Quel che conta, alla fine, è avere una visione e trovare il coraggio di portarla avanti, anche al costo di relegare in secondo piano logiche di corto respiro improntate al consenso immediato. Applicare questo enunciato all’operazione che Mario Draghi ha fatto a inizio settimana a Bruxelles ha un che di riduttivo, ma se vogliamo portare all’estremo la sintesi del suo rapporto sulla competitività dell’Unione Europea, non si può che arrivare a queste conclusioni.
Un anno di lavoro, oltre 360 pagine e una incommensurabile mole di dati hanno consentito al già presidente del Consiglio italiano e già presidente della Banca centrale europea di sostenere, davanti ai rappresentanti dei 27 Governi dell’Ue (più che alla presidente della Commissione Von der Leyen) che oggi siamo di fronte a una «sfida esistenziale». O l’Unione Europea decide per il cambiamento o è destinata a una «lenta agonia». Entrare nei singoli temi e nei capitoli del rapporto consente di rintracciare i caposaldi del ragionamento di Draghi: occorrono ingenti somme, almeno il 4 per cento del Pil europeo pari a 800 miliardi di euro l’anno, attraverso investimenti pubblici e privati e la creazione di nuovo debito comune attraverso Eurobond; la politica che ha dato vita al Pnrr dovrebbe quindi diventare strutturale per colmare il gap in innovazione che abbiamo oggi con gli Stati Uniti: da qui, secondo Draghi, deriva anche la maggior ricchezza dei cittadini Usa, più 30 per cento rispetto a noi europei. Il tutto senza dimenticare la condizione economica di famiglie e singoli e lo stato di salute dell’ambiente. In definitiva, le condizioni che hanno reso l’Europa competitiva, specialmente tra il 1985 e il 2005, non ci sono più. Nel 1992, alla creazione del mercato unico, si è scelto di mantenere a livello nazionale tutta una serie di asset strategici, come le reti di telecomunicazioni, la politica fiscale e quella di bilancio. Allora aveva senso, dal momento che le economie di Cina e India insieme valevano tanto quanto quella dell’Italia. Oggi la realtà è completamente ribaltata. I “piccoli” 27, se l’obiettivo è competere su scala planetaria, da soli non possono farcela. Prosperità, modello sociale inclusivo e crescita sostenibile sono marchi di fabbrica dell’Unione fin dalle origini del sogno che ha generato ottant’anni di pace, ma oggi non possiamo più garantirli. Il vero problema è che le stesse istituzioni chiamate a imprimere un’accelerazione alla politica unitaria hanno esse stesse forti necessità di riforme. In Europa abbiamo una criticità macroscopica nel processo decisionale, che spesso si inceppa a livello di Consiglio europeo, cioè non nell’organismo eletto dai cittadini (il Parlamento di Strasburgo), ma nel confronto tra primi ministri e presidenti, ovvero nel luogo in cui la sensibilità ai sondaggi e al consenso è più immediata. Le ragnatele invisibili che occorre togliere dal palazzo del Berlaymnont (sede della Commissione) o dalle due sedi del Parlamento (ce n’è una anche a Bruxelles) somigliano molto alla ruggine che abbiamo scoperto sul logo Volkswagen. Il colosso tedesco dell’automotive appare in crisi, chiuderà non uno ma due stabilimenti Audi in Germania: non era mai successo in 87 anni di storia. Perché tutto questo? Probabilmente perché continua a produrre auto costose e potenti, gioielli di tecnica e design, in un mondo che chiede veicoli leggeri e a basse emissioni, senza grande riguardo per le prestazioni, dai costi minimi, per poi noleggiare al bisogno vetture più grandi e performanti. La nostra fatica – a questo punto non solo italica – è quella di adattarci al cambiamento. Serve un’Unione più integrata e non abbarbicata alla sovranità nazionale; più elastica nel decidere, anche al costo di creare sottogruppi di Paesi che vogliano aprire strade nuove. Serve infine una politica, che si prenda fino in fondo la propria responsabilità e dare vita a una nuova visione di Europa, solidale e meno violenta nelle sue disuguaglianze interne.