Papa Francesco. Don Angelelli (Cei): “Anche nella fragilità ha amato fino alla fine”

Lo schierarsi del Papa a fianco dei deboli, dei malati, degli ultimi, è stato “la critica più potente ai modelli proposti/imposti dalla società, sempre performanti, vincenti, bellissimi ma tragicamente irreali”. La testimonianza di don Angelelli, responsabile Pastorale salute della Cei

Papa Francesco. Don Angelelli (Cei): “Anche nella fragilità ha amato fino alla fine”

La malattia e la fragilità ci spaventano; eppure sono componenti essenziali della nostra identità. Un mistero che Papa Francesco ha scelto di abitare insegnandoci che persone con disabilità, malati e “scartati” vanno guardati, toccati, riconosciuti, amati. Abbiamo raccolto la testimonianza di don Massimo Angelelli (nella foto)direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della salute della Cei.

In che modo, sia nel suo ministero sia nel suo magistero, il Papa ha saputo essere vicino alla fragilità e alla malattia?
Nel Vangelo c’è un passo molto interessante, quando Gesù sfida la mentalità corrente e si avvicina al lebbroso, che era, anche per evidenti ragioni sanitarie diremmo oggi, una persona impura da tenere a distanza. I lebbrosi erano i reietti di allora, ma Gesù, in modo imprudente, decide di andare verso questo malato. Il tema della malattia in tutte le sue declinazioni – biologica, mentale, spirituale – crea timore, distanza, stigma. Papa Francesco, sull’esempio del Vangelo, ci ha insegnato a non averne paura, ad avvicinarci.

Perché?
Perché essere vicini, essere prossimi, è già un elemento della cura. I gesti del Papa, i suoi comportamenti, ci hanno in qualche modo messo di fronte alle nostre paure. Ci hanno costretto a guardarle in faccia. Noi veniamo da una cultura che conia espressioni come “brutto male”, “male oscuro” per non chiamare con il loro vero nome le realtà che ci spaventano, come se questo consentisse di sfuggirle.

Abbiamo perfino paura di portare i bambini ai funerali…
Sì, ma questa non è una forma di protezione dalla malattia o dalla morte; è piuttosto una negazione della realtà. Papa Francesco ci insegna che l’uomo vive una sua fragilità costitutiva che non deve farci paura. È in questa fragilità che noi ci realizziamo. E dal punto di vista culturale

la sua è la critica più potente ai modelli proposti/imposti dalla società, sempre performanti, vincenti, bellissimi ma tragicamente irreali.

Per il Papa la fragilità è la nostra vera ricchezza perché ci rende umani.
San Paolo dice: quando sono debole, è allora che sono forte. Vincere, sentirmi forte, significa ammettere le mie fragilità, guardarle in faccia e assumerle come un dato costituzionale, intrinseco del mio essere persona. Ma questo non significa che io sia difettoso, meno bello o poco performante, e quindi da scartare. Significa semplicemente che devo essere trattato con cura perché sono fragile, fragile e prezioso: “maneggiare con cura”, recita un nostro slogan. Alle persone occorre avvicinarsi con delicatezza, tanto più se stanno vivendo momenti di vulnerabilità, malattia, isolamento.

A proposito di isolamento, nel messaggio per la Giornata mondiale del malato del 2024, Francesco aveva sottolineato l’importanza delle relazioni contro la solitudine che è la peggiore malattia.  
L’uomo è un essere sociale. Per vivere abbiamo bisogno di relazioni, di reti, di appartenenza. Il nostro benessere passa anche attraverso questo. Nel momento del bisogno, quando mi rendo conto che da solo non ce la faccio, qual è il grido più spontaneo? “Aiuto!”. Aiuto significa potersi appellare ad una relazione e alla speranza in Dio.

In quest’anno giubilare, infatti, il Papa scrive ai malati che Dio non ci abbandona ma cammina con noi…
E’ l’esperienza più importante per l’uomo. Il fatto che conosciamo e amiamo un Dio incarnato. I nostri sono gli stessi sentimenti che ha vissuto Gesù. In questi giorni della Pasqua, facciamo memoria del fatto che Gesù ha sperimentato la solitudine, l’abbandono, il tradimento; ha attraversato tutti i fallimenti dell’umanità per assumerli su di sé.

Gesù non è un “disincarnato”: sa benissimo che cosa proviamo.

Durante il ricovero al Gemelli e anche negli ultimi giorni prima della morte, il Papa ha mostrato la sua fragilità. Prima si avvicinava a quella degli altri; ora l’ha vissuta di persona e molti malati e sofferenti si sono immedesimati in lui.

La sua è la testimonianza di un uomo che ha amato fino alla fine.

Questo suo desiderio di contatto con le persone fino al giorno di Pasqua, poche ore prima della morte, è ciò che lo nutriva, ciò che ha intessuto la sua vita di pastore. Dall’inizio, con la scelta di vivere a Santa Marta, fino alla fine con il desiderio di incontrare il popolo di Dio quando ormai le forze stavano per abbandonarlo. Questo è il fil rouge che attraversa tutto il suo ministero, testimoniato dagli innumerevoli viaggi per incontrare anche le popolazioni di aree devastate dalla guerra. Come quando ha aperto la Porta Santa a Bangui (Repubblica Centroafricana, ndr) il 29 novembre 2015. Un gesto profetico che ha detto la sua volontà di esserci.

Se la salute gliel’avesse permesso, credo ci avrebbe riservato ancora molte altre sorprese.
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Fonte: Sir