La crisi in Ucraina: le costanti della geopolitica, tra passato e presente. Nota geopolitica
Una nuova rubrica di geopolitica nata grazie alla collaborazione con la Facoltà di Scienze della Pace e Cooperazione Internazionale della Pontificia Università Lateranense.
È plausibile accostare le odierne frizioni tra Mosca e Washington alla Crisi dei missili di Cuba, che nel 1962 tenne il mondo con il fiato sospeso? La distanza dal bipolarismo di sessant’anni fa mette in guardia da paralleli anacronistici. Eppure, dal confronto, emerge una costante significativa. Chruschev dispiegò i missili balistici a Cuba in seguito all’installazione degli Jupiter NATO sul confine tra Turchia e URSS e, più apparentemente, per dissuadere gli USA dal ritentare l’invasione dell’isola dopo l’operazione nella Baia dei Porci. Non serve dire a cosa fu dovuta la minacciosa risposta di Kennedy, stante l’intimidazione portata sull’uscio di casa. Sappiamo che la crisi si risolse con smantellamenti e garanzie di reciproca soddisfazione.
Oggi, con la mobilitazione dell’esercito al confine con l’Ucraina, Putin esige che la NATO non integri quest’ultima, per farne un avamposto in grado di condizionare pesantemente l’influenza regionale di Mosca. Il veto all’occidentalizzazione dell’Ucraina – la cui carta costituzionale promuove l’adesione alla UE e all’Alleanza atlantica – si mostra “conservativo”: data l’improbabilità di restituirla all’egemonia russa, si tratta di confermare l’Ucraina come Stato-cuscinetto permanente almeno sul piano militare, rivendicando sull’area ex-sovietica un esclusivismo analogo a quello postulato dalla Dottrina Monroe (1823) sul continente americano. Più plausibilmente, nel relativizzare la definizione di “potenza revisionista” a essa assegnata, la Russia tiene a mente le garanzie offerte da Reagan a Gorbachev, ribadendo l’intesa tra Nixon e Breznev in ordine a una “cintura di astensione” attorno alle rispettive orbite geopolitiche.
Ma, per quanto votata allo status quo, la strategia di Putin considera l’attacco la miglior forma di difesa. Dalla Rivoluzione di Euromaidan (2104) in poi, essa agisce su più versanti per penalizzare l’Ucraina ed eroderne la sovranità: l’annessione della Crimea (assegnata a Kiev nel 1954) e il supporto alle repubbliche secessioniste del Donbass (corrispondenti al 10% della popolazione e al 20% del pil nazionale) fanno il paio con le pretese di saldo del debito, la revoca delle agevolazioni sulle tariffe energetiche, la realizzazione dei gasdotti Nord Stream tra Russia e Germania che aggirano il suolo ucraino. Sono rappresaglie di “strangolamento” non semplicemente punitivo, giacché zavorrano la Westpolitik: la pressione allontana gli investimenti e ostacola l’inclusione nella NATO di un Paese esposto a turbolenze, che a rigore, non soddisfa i requisiti di ammissibilità nell’Alleanza, non presentando una piena sovranità territoriale. Segnatamente, le repubbliche del Donbass, per USA e UE, risultano formalmente territori occupati. E, paradosso nel paradosso, l’odierno governo ucraino, per non alienarsi cospicui settori elettorali, oggi torna a ricusare la soluzione che vorrebbe collegarle a Kiev mediante l’opzione federale, prevista dalla Conferenza di Minsk (2015).
Senza lanciarsi in previsioni, si può ipotizzare che lo stallo deponga a favore della de-escalation. Rileva poi l’accortezza per l’Occidente di non saldare ulteriormente il sodalizio tra Mosca e Pechino. Inoltre, il tempismo di Putin ha colto l’Europa nelle necessità del rilancio post-pandemico. I nodi irrisolti di un’integrazione variamente omologata tra atlantismo e europeismo agevolano il divide et impera perseguito dalle interlocuzioni separate del Cremlino. Esse segnalano le “colombe” preoccupate di subire i contraccolpi di nuove sanzioni contro Mosca, a fronte degli storici “falchi” anti-russi (Finlandia, Paesi baltici e Polonia su tutti). L’effetto depolarizzante della diluzione multilaterale può incoraggiare la ricerca di soluzioni et-et, in luogo degli aut-aut d’esordio, salvando l’efficacia delle esibizioni muscolari: utili al Cremlino per rimarcare la leadership regionale; utili a Biden per riassegnare crediti alla Casa Bianca dopo i risvolti in Afghanistan e, internamente, recuperare consensi in vista delle elezioni di medio termine.
Restano valutazioni di Realpolitik, che tuttavia eludono almeno due questioni. La prima attiene alla società ucraina, precipitata tra le più povere d’Europa e afflitta in Donbass da un conflitto che non ha smesso di mietere vittime (oltre 13.000). La seconda riguarda le tensioni che, per quanto calcolate, si espongono a variabili pronte a sfuggire di mano. Rilievo simile fu eccepito nel 1962 dalle diplomazie intermediarie, corroborato dal più radicale dei realismi indirizzato da Giovanni XXIII ai contendenti di allora: come misurare costi e benefici, quando il registro delle intimidazioni estreme, intese a scongiurare un danno eventuale, mostra che v’è poco (o nulla) da vincere ma molto (se non tutto) da perdere? Giova chiederselo con rinnovato vigore.
Giuseppe Casale