Al "fare", personale e comunitario, va collegato il "credere"
Quant'è bella giovinezza. Girando per le parrocchie mi accorgo che ai giovani chiediamo tanto. Affidiamo loro delle richieste che li spremono
Ripartiamo dall’episodio con cui ci eravamo salutati il mese scorso. Un giovane viene chiamato a parlare del Sinodo dei giovani nel proprio vicariato e tutti sono entusiasti dell’intervento. Talmente entusiasti che al termine dell’incontro il responsabile della Caritas gli propone di fare il volontario al centro di ascolto, il giovane cappellano di partecipare al gruppo di formazione, il presidente dell’Ac di iscriversi al weekend diocesano… E nessuno ha pensato – mi racconta poi con disappunto – che una vita bella piena ce l’aveva già e ormai da tempo pensava di “tagliare” proprio per l’intasamento dell’agenda.
Centrifuga, estrattore di succo, spremiagrumi. Non so se avete trovato uno di questi regali sotto l’albero di Natale. Sono elettrodomestici molto diffusi nelle nostre comunità cristiane, anche per quanto riguarda i (pochi) giovani presenti. Girando per le parrocchie della visita pastorale, mi imbatto in situazioni ai confini della realtà: ragazzi e ragazze di poco più di vent’anni che sono educatori, catechisti, membri del consiglio pastorale, (vice) presidenti dell’Azione cattolica, membri del gruppo sagra, Chiarastella e processione della Madonna, senza contare quelli che sono anche impegnati a livello vicariale o diocesano. La domanda un po’ provocatoria che faccio quando hanno finito di presentarsi, sciorinando curricula degni di un manager a fine carriera, è: «Scusa, ma hai anche una vita privata fuori dalla parrocchia?». «Come scusi?» mi rispondono sgranando gli occhi. «Sì, intendo, se hai un ragazzo o una fidanzata, degli amici, se studi o lavori… No, perché con tutti gli impegni che hai in parrocchia, mi domando se riesci a vivere una vita tua…».
Ecco quello che chiamo “effetto spremiagrumi” (o centrifuga o estrattore, a seconda della vostra scuola di pensiero in materia). Chiediamo tanto, troppo. E affidiamo loro delle richieste che li spremono, troppo pesanti per le loro spalle. C’è il rischio di trovarsi, come cantava Ligabue in Una vita da mediano, «da uno che si brucia presto / perché quando hai dato troppo / devi andare e fare posto». E così molto velocemente perdi motivazione ed entusiasmo perché il tuo “sì” iniziale non hai nemmeno avuto il tempo di interiorizzarlo, farlo crescere, affinarlo. La conseguenza è che dopo due-tre anni di impegno ci si prende anni sabbatici (capita anche ai giovani educatori!) o pause di riflessione che non finiscono più.
Come uscire dall’“effetto spremiagrumi”? Serve collegare il motore del “fare” della nostra vita personale e comunitaria al voltaggio di corrente adeguato, il voltaggio del “credere”: «L’essenziale della vita delle nostre comunità come luoghi in cui si possa innanzi tutto incontrare personalmente il Signore Gesù, anche attraverso i sacramenti, e innamorarsi del Vangelo. Questo è il cuore delle comunità di cui facciamo parte ma tante attività, strutture, programmi, tempi… rischiano di "far fare" tanto senza attribuire al fare il giusto significato, smarrendo il centro» scrivevano i giovani nel testo finale del nostro Sinodo (Lettera dei giovani alla Chiesa di Padova 2,1).
Tra questi due poli, del credere e del fare, restano però essenziali due componenti fondamentali, quello di una visione adeguata di che comunità vogliamo essere (discernimento) e quello di una progettualità e di scelte personali e comunitarie coerenti con tale visione. Altrimenti si rischiano terribili cortocircuiti che bruciano in fretta risorse, collaborazioni e vocazioni.