Quando la poesia condivide l’abisso del dolore. Mai come in questa epoca la Passione ci riguarda da vicino
Pensavamo che la sazietà, il benessere economico, la lontananza ci avrebbero tenuti fuori dal disastro ecologico e politico.
Mai come in questi giorni di guerre e di notizie di uccisioni di civili e di bambini, e prima ancora di fame, di sete e di freddo nei boschi di confini geopolitici che ignorano non solo la dignità, ma la vita stessa, e in questi anni di gente sola in case deserte o intubata in una corsia d’ospedale per tornare a respirare, la Passione ci riguarda da vicino.
Pensavamo che la sazietà, il benessere economico, la lontananza ci avrebbero tenuti fuori dal disastro ecologico e politico. E invece la fame, la miseria, il freddo, la malattia sono rientrati dall’ampia finestra della fuga, della necessità di salvare i piccoli, dall’improvviso doversene andare di casa, perché quella casa semplicemente non esiste più.
Lo aveva capito profeticamente David Maria Turoldo, proponendo nella Notte del Signore il dolore del cosmo intero di fronte all’eclisse dello spirito e anche della speranza, perché “perfino gli olivi piangevano/ quella notte, e le pietre/ erano più pallide e immobili,/ l’aria tremava tra ramo e ramo/ quella Notte”. La disperazione nello stesso Redentore che chiede l’allontanamento del calice del sacrificio, Turoldo la vedeva in una povera senza gambe che dormiva d’inverno ricoperta di fogli di giornale tra l’indifferenza della metropoli gaudente, nei reticolati dei campi di concentramento, nelle domande di senso di chi perde tutto senza un apparente perché. È quel sostare al di qua della Resurrezione, a quel prima inspiegabile e non dicibile che fa della poesia di Turoldo qualcosa di palpabile, reale, lontano da qualsiasi formalismo.
Come la poesia del Clemente Rebora dopo la conversione e la scelta di entrare tra i Rosminiani, una scelta radicale, per dimenticare e farsi dimenticare, e lasciarsi alle spalle una produzione poetica che pure lo aveva visto -e lo vede tuttora- tra i più grandi lirici italiani del Novecento. La poesia del dopo sarà quella del ritorno a versi volutamente facili, scarni, mirati alla devozione e alla comprensione di tutti, come quando si rivolge alla Croce che “irraggia luce dal Calvario,/ di nuovo posta da Rosmini al sommo:/ dice in salvezza del mondo precario/ che un solo Amore è vero e necessario”. La tentazione di pensare alla umile, didascalica, “primitiva” Natività mistica di un Botticelli un tempo raffinatissimo, giunto alla fine della sua carriera, è davvero forte.
Ma già nel secolo precedente, l’umano troppo umano, come aveva suggerito Nietzsche, della Passione aveva fatto breccia nei cuori dei non credenti come Pascoli. Il suo Gesù sa di dover morire, e quando le voci del popolo gridano che Barabba, il padre di quel bimbo che sta abbracciando, morirà presto in croce, allora ”Il Profeta, alzando gli occhi,/ -No- mormorò con l’ombra nella voce”. Quella “ombra nella voce” dice tutto, nella sintesi della grande poesia: ci dice la consapevolezza di chi sa di dover andare fino in fondo in un cammino che porterà dalla gioia della condivisione del poco all’atrocità del supplizio e alla disperazione.
In Emily Dickinson la partecipazione al dolore del Figlio dell’uomo arriva ad esiti mai osati fino ad allora: “Morii per la Bellezza -ma ero appena/ sistemata nella Tomba/ quando Uno che morì per la Verità, fu adagiato/ in una Stanza adiacente”. La comunione con Cristo è talmente abissale che, in una sorta di sposalizio rovesciato, la sposa condivide il letto funebre dello Sposo.
E d’altronde, tre secoli prima, un uomo che aveva scelto di portare fin dal nome il riferimento alla Passione, Giovanni della Croce, aveva cantato il sacrificio radicale di condivisione per il ritorno alla vita di un mondo che aveva perso la Grazia: “Perché tua madre, la natura umana, fu violata dai tuoi progenitori sotto l’albero, e tu, sotto l’albero della Croce, fosti risanata; così, se tua madre sotto l’albero ti ha dato la morte, io sotto l’albero della Croce ti dono la vita”, afferma lo Sposo nel Cantico Spirituale.
E il nostro scrittore cattolico per eccellenza? La sua Passione, all’interno degli Inni sacri, dietro la scelta di un linguaggio apparentemente retorico e arcaizzante nasconde la conoscenza di quel dolore, di un Gesù che “l’abbandono del Padre sostenne” e che dovette subire l’abbraccio traditore di quello che avrebbe dovuto essere un amico fraterno, e i dileggi di una folla che infierisce in una “gioia crudel” quanto maggiore è la disperazione della vittima.
Una disperazione con cui dobbiamo, purtroppo, tornare a fare i conti oggi.